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Capitolo XVI – Verso la luce
“L’animo mi dice tuttavia che non sono vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto”.
(Prof. Luigi Di Bella, settembre 2002)
Luigi non ha bisogno di validazioni, statistiche, consensi. Oltre cinquant’anni di ricerca sperimentale sui tumori e trenta di applicazione clinica con sistematiche conferme positive gli consentono di vivere in pace con se stesso. Nessuno avrebbe potuto fare meglio e di più. Che abbiano cercato in ogni modo di intimorirlo e sminuire la sua limpida figura di medico e scienziato non gli ispira alcun risentimento. Prova soltanto, e sinceramente, compassione per gli autori di tante bassezze, ignari del male fatto all’umanità prima ancora che a lui: non avendo percezione del bene, non possono averla del male. Ben altre sono le cose che contano: non conciliaboli, trabocchetti, inganni, strategie, ma le verità della scienza ed il mistero dell’animo umano. L’episodio che segue sfida qualsiasi lettura sociologica o psicologica, perché nessuna argomentazione spiega in modo convincente il carisma dello scienziato e la fiducia che egli ispira a tutte le persone il cui cuore non è spento: perfino le persone meno istruite, più semplici, distratte dagli affanni della vita percepiscono la differenza abissale dai modelli che sono loro proposti; avvertono l’inimitabile aspetto della verità, dell’autenticità, dell’umanità. Sembra avere addirittura qualcosa di metafisico la forza di penetrazione della sua figura nell’animo umano: come se in ognuno, per la prima volta, un diapason iniziasse a risuonare al suo apparire.
Un giorno di gennaio riceve questa lettera, da noi trascritta senza nulla correggere, inviatagli da un detenuto:
“Carissimo dottore Di Bella ciao come state sono Emilio che vi scrivo. Mi trovo in carcere e non ho neanche una lira per comprarmi il più necessario. Non ho neanche un amico tutti mi hanno girato le spalle. Io non avevo il coraggio di scrivervi perché sono un po timido come voi già sapete. Io vi invio a voi tutti auguri e felice hanno nuovo perché siete una persona onorata”
Anche un carcerato capisce che Luigi Di Bella è “una persona onorata”. Lui risponde il 20 gennaio:
“Ti mando 50.000 lire per i tuoi immediati bisogni – Cerca di non far mai male a nessuno ed a nessuna cosa degli altri. Cerca di lavorare e di guadagnarti un pane onesto, e allora gli altri si avvicineranno a te e ti aiuteranno. Ricordati che attraverso la sofferenza s’impara a conoscere la vita, più che attraverso il godimento. Se non farai male a nessuno potrai guardare tutti in faccia senza vergognarti. Comportati bene”
Una lettera come questa rimarrà nella memoria del mondo.
Anche se è finito il periodo convulso della sperimentazione, la sua vita è ben lontana dalla triste quiete degli anni che hanno preceduto la notorietà. Conferenze, incontri, occasioni di ogni genere lo portano a muoversi spesso da Modena. Gli inviti giungono sia da quanti sinceramente interessati alla sua terapia, che da persone altrettanto sinceramente interessate alle proprie tasche: sono frequenti, in particolare, quelli rivolti da medici e farmacisti mossi dalla fregola di accreditarsi e scattare fotografie accanto a Luigi Di Bella da esporre nel loro studio o nella loro bottega. Nella maggior parte dei casi riceveranno dinieghi cortesi ma fermi. Dopo una di queste trasferte, conclusasi il 31 gennaio, Luigi si ammala seriamente, con accessi febbrili oltre i 40°. Dopo alcuni giorni di malessere e febbre, la sera del cinque febbraio le condizioni si fanno più serie: Adolfo, che gli è accanto fin dal pomeriggio, verso mezzanotte chiama il fratello, che fortunatamente sta tornando da un convegno ed accorre trafelato dopo avere acquistato alcune fiale di gammaglobulina in una farmacia notturna. Poche ore dopo il febbrone cessa. Sono comunque segni chiari di un organismo troppo provato da sforzi continui e da uno stress non sostenibile in eterno.
Luigi si riprende rapidamente, tanto che a fine mese tiene una conferenza a Modena ed il 5 marzo si reca a Montecarlo per un’altra.
Il 27 marzo è a Messina con Adolfo: quest’ultimo invito proviene dal preside del Seguenza, il liceo scientifico che aveva frequentato settant’anni prima. La sede non è più quella dei suoi tempi, ma l’accoglienza riservatagli da alunni e docenti lo emoziona profondamente, specie quando gli vengono consegnate le copie dei registri scolastici con le annotazioni dei voti che aveva riportato.
Lì lo raggiungono affranti i genitori di un bimbo di pochi mesi, colpito da un fibrosarcoma congenito maligno. Risultato totalmente inefficace il ciclo di chemioterapia praticato, l’unico disperato tentativo prospettato, senza alcuna garanzia e con notevoli rischi, sarebbe l’amputazione della gamba e di parte del bacino. Insieme ai genitori c’è un medico che si era avvicinato alla terapia. Luigi esamina a lungo la documentazione clinica, visita il piccolo steso nella carrozzina e formula lo schema terapeutico. Questo – avverte – dovrà essere monitorato dal medico presente: se questi si terrà in costante contatto, lui potrà disporre di volta in volta, basandosi sui controlli per immagini e sui valori delle periodiche analisi, le variazioni farmacologiche e posologiche che riterrà più opportune.
Lo scienziato farà una visita di controllo il 1° settembre 2002, dichiarandosi fiducioso nella risoluzione della malattia: previsione esatta, visto che il bambino guarirà e la stessa struttura ospedaliera che aveva espresso una prognosi negativa – il Policlinico di Messina – scriverà l’8 febbraio 2002 sulla cartella clinica:
“fibrosarcoma congenito maligno – ha eseguito ciclo di chemioterapia senza risultato. Rivoltosi al Prof. Di Bella ha iniziato l’omonima terapia e a tutt`oggi la massa si è ridotta dai 4,5 cm. originali ai 12 mm odierni”
Due anni dopo il tumore risulterà totalmente scomparso e di lì a poco il piccolo giocherà in una squadra giovanile di calcio, i “pulcini” del Messina1.
NOTA: Come “bonus aggiuntivo” al capitolo, si vuole qui ricordare che il caso in parola è riportato nella pubblicazione Congenital fibrosarcoma in complete remission with Somatostatin, Bromocriptine, Retinoids, Vitamin D3, Vitamin E, Vitamin C, Melatonin, Calcium, Chondroitin sulfate associated with low doses of Cyclophosphamide in a 14-year Follow up (nel titolo il link a PubMed).
La conferenza si tiene in una grande sala del Seguenza, letteralmente stipata di allievi, docenti e persone richiamate dalla circostanza. Lo scienziato tocca diversi argomenti, illustrando naturalmente i principi fondamentali della terapia, ma soffermandosi particolarmente sull’insostituibile valore formativo della scuola e dello studio. Al termine, dopo aver portato fiori sulla tomba della moglie, viene accompagnato a Giostra. A casa Costa, lo attende Mons. Scarcella, che da giovane parroco aveva celebrato le nozze con Ciccina, abita ora proprio in quel luogo denso di memorie – di proprietà della curia – e riposa nella stessa camera nella quale quarantaquattro anni prima aveva somministrato l’estrema unzione a Giovanni Costa. E’ commovente l’incontro dei due: si stringono le mani ed accennano entrambi ad un filo di malinconica ironia leggendosi reciprocamente nei tratti i sessant’anni trascorsi. Poi si abbracciano2.
E’ ancora lì la gelsominara di un tempo, ed il confinante villino Runci, solitario e dimesso, sembra un vecchio signore con gli acciacchi dell’età ma una lucida memoria del passato: se sono spariti i roseti e quasi tutti gli alberi di bergamotto e limone, il cedro del Libano svetta gigantesco verso il cielo, appena un po’ sfrondato.
Un nipote di Adolfo Runci, preavvertito della visita, è corso ad aprire il cancelletto d’ingresso per una breve visita al giardino, ma non ha potuto aprire il portone d’ingresso del villino, bloccato da assi inchiodate in attesa di sostituzione dopo ripetuti tentativi di scasso, alcuni purtroppo con successo: parte del mobilio più prezioso è sparita, informa. Segno dei tempi, anche questo.
In casa Costa poco o nulla è rimasto degli arredi di un tempo ed il salotto, dove lui suonava il pianoforte a quattro mani con Ciccina, ora polveroso e dimesso funge da studio.
Le altre stanze sono vuote, ma evocano in Luigi vivide istantanee di immagini e voci del passato: all’ingresso Ciccina ragazza lo accoglie con quel sorriso che aveva la virtù di lenire dispiaceri, incomprensioni, l’umiliazione per l’abito logoro; suoceri, cognati e cognate accorrono per accoglierlo con affetto; e poi i bambini, i suoi bambini, Pippo che s’avvicina con i quaderni dei compiti da mostrargli, mentre il più piccolo che oggi, adulto, è affranto dalla sua stessa nostalgia, gli corre incontro e lo trascina per mano con un “papà, veni papà, veni…” .
Sul retro del giardino sono scomparse dal muretto di cinta le cassette di legno con la menta e il basilico che Giovanni Costa innaffiava ogni mattina; la campagna dorata dal perfido sole struggente del pomeriggio e un tempo popolata di fichi, nespoli, eucalipti è irriconoscibile, sfigurata anche da un edificio incompiuto, brutto, volgare, marezzato di erbacce e invaso da rampicanti selvatici.
Mentre ascolta Mons. Scarcella che lo conduce per le stanze, altre parole gli risuonano nell’anima, e la tristezza non si muta in strazio perché lo soccorre il pensiero che con il gomitolo della vita finiranno anche pene e rimpianti. Chissà se gli è tornato in mente Fabrizio, il principe di Salina protagonista del venerato “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, il quale diceva a se stesso che esiste pur sempre “l’uscita di sicurezza” per sfuggire a dolori, delusioni e tormentose nostalgie che accompagnano il tramonto della vita.
Tornato a Modena, si divide come sempre tra ricerca e visite. Se in strada non c’è la stessa folla in attesa dell’anno prima, i pazienti che si rivolgono a lui sono egualmente molto più numerosi di quanti possa esaminarne. La vista lo fa sempre tribolare e l’udito non è certo migliorato. Tiene dentro di sé e cerca di celare l’avvilimento per i limiti crudeli comportati dalle menomazioni, ma a volte non vi riesce e certe sere Adolfo lo trova abbattuto: “mi è stata tolta l’unica cosa che mi era rimasta” gli confida.
Le ricette di questo periodo mostrano una grafia ancora leggibile, ma con evidenti irregolarità: righe che si intersecano, spazi ora stretti ora larghi tra l’una e l’altra. Sempre più spesso dovrà ricorrere a “laureati in medicina non si sa come” – così suole ripetere – per redigere prescrizioni leggibili.
Anche se non ama particolarmente spostarsi per convegni e conferenze, queste occasioni lo aiutano ad evadere dall’oppressione delle stesse pareti e diluire i pensieri più cupi; allo stesso modo delle visite domenicali a Fanano, dove lo accompagnano C. Dallari o W. Ferrari, quando non è il fidato Carlo Brusiani a farlo con la macchina che Pippo gli ha regalato dopo l’ultimo incidente, ma che Luigi non può più guidare.
Il 16 giugno vola a New York, invitato dalla comunità italiana ed il giorno dopo tiene una conferenza ai medici del Victoria Memorial Hospital, nel corso della quale si sofferma sui risultati e sulle prospettive del suo metodo.
I giornalisti che in albergo vanno ad intervistarlo cercano invano di strappargli giudizi caustici sulla sperimentazione: ma lui non ha mai amato le polemiche e soprattutto gli riesce odioso evocare una stagione di inganni e bassezze di ogni genere che nemmeno un’amara esperienza di vita gli aveva fatto immaginare.
Quando gli viene chiesto di pronunciarsi sugli “interessi che si agitano, tranne quelli che riguardano i malati”, dice che questi ultimi: “…sono i soli che mi stanno a cuore” e, riferendosi ai tanti impostori che si proclamano suoi seguaci:
“ […] non debbo solo difendermi dalle storture applicate alla verifica del metodo Di Bella, ma anche dalla avidità di una certa classe medica che ovunque vorrebbe solo sfruttare il mio nome per assicurarsi danaro e notorietà, senza aver nemmeno capito cosa è in sostanza il mio Metodo3”
Si diffonde quindi sulle incongruenze della medicina contemporanea:
“ […] se non cambia la mentalità, la maniera di vedere il malato sezionato in tanti scomparti indipendenti l’uno dall’altro, sarà impossibile mettere il corpo umano in condizione di respingere la maggior parte dei mali che lo affliggono. Il futuro è nella prevenzione, ma non come la si intende oggi. Una prevenzione totale che non solo può assicurare una buona salute, ma potrebbe garantire l’espansione della vita umana fino a 120 anni4”
Alcuni anni dopo, un noto oncologo gli copierà anche questi concetti e queste parole, s’intende senza avere la minima idea di come attuare le misure alimentari e farmacologiche necessarie. La sera è presente ad un festoso ricevimento organizzato in suo onore dalla comunità italiana di New York al Cotillon Terrace di Brooklin, al quale partecipano oltre un migliaio di persone. Al termine è una lunga processione per salutarlo, regalargli fiori, stringergli la mano. Angelo Vinciguerra, animatore della comunità italiana, rivolgendosi all’ospite dice:
“Voi in Italia avete avuto e avete tuttora la possibilità di scegliere. Sia pure tra le polemiche e purtroppo anche le insinuazioni. Noi qui vogliamo saperne di più dopo che molta gente, molti connazionali che vivono a New York e che avevano perso ogni speranza, sono andati in Italia per seguire sulla propria pelle la terapia Di Bella e hanno ottenuto miglioramenti sensibili, eccezionali in molti casi. Grazie per quello che ha fatto e che farà”
Un primo segno del fallimento di un ordito che contava di cancellare persino la memoria della sua terapia.
L’indomani è nel New Jersey, ad Hackensack, dove tiene una seconda conferenza al Court Plaza davanti a medici interessati al suo metodo ed il 20 parla a New Heaven, in Connecticut.
Rientrato in Italia, dopo una meravigliosa conferenza sull’alimentazione, tenuta alla sede dell’AIAN Modena il 29 giugno, giunge una notizia di stampa che sembrerebbe far vacillare il grattacielo di carte costruito dalla mendace sperimentazione: 900 pazienti dello Studio Osservazionale sono vivi e continuano a curarsi! Con il decreto legge 23/98 che aveva deliberato la sperimentazione, si era infatti deciso di avviare uno studio su base regionale comprendente circa 2.000 pazienti, a condizione che si trattasse di tumori in stadio avanzatissimo o di pazienti terminali. Un successivo provvedimento (varato a denti stretti in seguito alla pronuncia della Corte Costituzionale, che al tempo conservava ancora un minimo di autorevolezza giuridica) aveva aperto l’ingresso anche a malati che, sulla base di una relazione medica, non avessero alternative terapeutiche: in parole semplici, spacciati sì, ma non ancora moribondi.
Il clamore nasce in seguito ad una lettera del Min. Bindi agli Assessorati regionali5 e, per conoscenza, all’Ist. Sup. della sanità. In questa lettera il ministro della sperimentazione, dopo avere ricordato che era stata garantita la prosecuzione del trattamento ai pazienti stabili, afferma che …per l’insufficienza dei fondi non potranno essere acquistati – e quindi corrisposti ai malati – i farmaci MDB. Questo non toglie, continua, che i pazienti potranno farsi ricoverare negli ospedali e contare in ogni caso sulla “ospedalizzazione domiciliare”…
E’ una decisione con il sapore di crudele beffa, che evoca l’apocrifa battuta attribuita a Maria Antonietta in risposta alle proteste del popolo affamato e senza pane: “ebbene, mangino brioches”. Ma quelle proposte sono brioches al cianuro. La cosa ha dell’incredibile: lo Stato prima garantisce con un provvedimento legislativo il trattamento gratuito ai malati in MDB “stabili”; poi, con una semplice lettera, dice che – ahimè! – di soldi non ce ne sono più e di conseguenza i malati o si pagano i medicinali, o si affidano alle amorevoli cure istituzionalizzate, dalle quali sono stati ridotti in fin di vita: a prescindere dal fatto che il costo delle cure e delle degenze ospedaliere, come quello dell’assistenza domiciliare, risulterebbe nettamente più oneroso del MDB!
Ma, sorprendentemente, non è questo provvedimento fazioso a fare uscire qualche articolo di stampa (nonostante severe “raccomandazioni” fatte a direttori di testata), bensì l’ennesimo conto che non torna: su duemila malati senza speranza e con prognosi infausta a breve o brevissimo termine, il 45% continua a vivere e curarsi con il metodo. Ma come, non era inattiva e fallimentare questa terapia…?
Oltre ad alcuni quotidiani, il settimanale Panorama (n. 26 del 1 luglio 1999) dedica una pagina a questo evento. Il titolo dell’articolo, firmato da Elisabetta Burba e Maurizio Tortorella, recita:
“Toh, chi si rivede: 900 ‘condannati’ ancora vivi”
Ed occorre avere ben presente, anzi, presentissima, l’opinabile obiettività di chi è chiamato a decidere sulla sussistenza o meno di “stabilità”: il che significa che i pazienti vivi sono molti di più. Il numero di novecento riguarda solo coloro che continuano ad essere ammessi alla fruizione gratuita dei farmaci e non chi, giudicato in peggioramento o escluso pretestuosamente, è vivo e si cura a proprie spese. Si commentano da soli provvedimenti simili, presi, per giunta, a danno dei meno abbienti e studiati palesemente per impedire ad ogni costo ed in ogni modo pratica e diffusione della terapia.
Paradossalmente, qualche mese dopo, il ministro della sanità, riferendosi alla sperimentazione, parla di …“barbarie”, volendo additare la terapia Di Bella ad esempio di un oscuro periodo di inciviltà attraversato dalla scienza…
Di barbarie si può parlare, ma in senso e direzione esattamente opposti. Con riferimento all’operato degli oncologi prima, della politica dopo, calzerebbe perfettamente la celebre pasquinata “quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini”.
L’estate non è particolarmente calda e Luigi sembra star bene. Il 17 luglio, giorno del suo ottantasettesimo compleanno, lo festeggerà insieme al figlio Giuseppe.
Quanto ai problemi di vista, come prima avvertito alcuni medici frequentano lo studio con l’intento dichiarato di aiutarlo nell’esame della documentazione e di redigere sotto dettatura la prescrizione. Ma la signorilità, pazienza e bontà che gli sono proprie vengono scambiate da qualcuno per dabbenaggine: il solito grossolano errore dei mascalzoni a contatto con le persone superiori, da loro ritenute allocchi da poter girare e rigirare come credono grazie alla propria pretesa astuzia.
Così accade sia per un medico, presentato quale professionista integerrimo da un ex paziente, che per quest’ultimo, offertosi di organizzare le visite, fare accomodare i pazienti, dare loro informazioni. Come si può dubitare dell’onestà d’intenti di un malato restituito alla vita ed alla serenità? Come non dargli cieca fiducia?
L’ex paziente due anni prima stava morendo per un male inesorabile, ridotto ad una larva non si reggeva in piedi mentre ora, scomparso il male, trabocca di energia e iniziativa. Nella maggior parte dei casi la gratitudine dura quanto il bisogno: poi diventa un peso. Bene lo sa Luigi, che non di rado ha dovuto sopportare (per usare una sua espressione) le “ritorsioni” di coloro che aveva salvato. Medico e neosegretario si consorziano, associando anche un farmacista al quale indirizzare i pazienti (e che, come scoprirà anni dopo Adolfo, in appello ha evitato per il rotto della cuffia una pesante condanna), con il proposito sinergico di cavare tutto il possibile da quell’inesauribile mucca dal latte a ventiquattro carati che è Luigi. Lui pazienta, non vuole credere a quanto gli viene riferito da persone che ha visitato, quasi a voler esorcizzare il manifestarsi dell’ennesimo esempio non solo di ingratitudine, ma anche di infamia, visto che non ci si fa scrupolo di approfittare della sordità e della vista offesa. Il medico mira ad accaparrarsi i suoi pazienti, cosa che gli interesserebbe ben poco se questi avesse cultura e perizia: ma così non è.
“Capisce niente”, questo il suo giudizio lapidario. Il farmacista non dispone nemmeno di una provetta, ma smercia mediocri galenici altrui sovrapponendomi la propria etichetta. Quanto al sedicente segretario, che funge da agente commerciale del compare medico e del compare farmacista (riedizione integrata de il Gatto e la Volpe), non solo sollecita e intasca “contributi per la ricerca”, ma arriva a contattare i parenti di malati deceduti, farsi donare i farmaci avanzati e rivenderli ad altri malati.
Agli increduli lettori potremmo ricordare altri episodi, ma ci limitiamo a questo, per esemplificare l’abominio al quale può giungere un essere umano. Un medico e un farmacista che tradiscono i più elementari principi etici; una persona che diffama e sfrutta chi, senza nulla pretendere, gli ha salvato la vita, non trattenuto nemmeno da un minimo di pietà per i malati e dalla remora istintiva dell’essere passato per analoghe esperienze. Perfino criminali incalliti provano a volte il sentimento della gratitudine! Davvero la cosa più difficile è conoscere l’uomo e, nonostante questo, amarlo.
Un mattino, non disposto a tollerare ulteriormente lo sconcio, particolarmente indignato dal comportamento del medico, fattosi sempre più sfacciato ed insolente, e da un vergognoso ennesimo episodio, congederà i sinergici collaboratori. A modo suo, senza rancori, spiegazioni o recriminazioni: “sono stanco, chiudo lo studio. Non c’è bisogno che veniate più” dice loro.
Qualche altro medico aiuterà Luigi. Le gocce che Adolfo ogni sera gli mette negli occhi e i tentativi terapeutici adottati evitano che la situazione peggiori, ma non riescono a fargli recuperare la vista, che ha alti e bassi nel corso della settimana. Basta che riscontri un miglioramento, per quanto modesto e fugace, per vederlo riconfortato, fiducioso e di buon umore: parla delle letture che è riuscito a fare, degli spunti che queste gli hanno offerto, dei meravigliosi progressi della conoscenza scientifica. Quando Adolfo e Pippo gli sono accanto, riferisce loro degli avvenimenti della giornata, si sofferma su qualche caso pietoso occorsogli al mattino, sugli errori diagnostici e terapeutici che rileva, sulle storie personali dei pazienti, delle quali ricorda ogni più minuto particolare.
Con il figlio maggiore la discussione si sposta inevitabilmente sul piano scientifico e terapeutico e Pippo, come faceva fin da studente, annota con diligenza le considerazioni e le indicazioni del padre. Parlare con lui significa toccare qualsiasi argomento, dai più elevati a quelli meno impegnati, tra i quali certe notizie che egli apprende dalla radio. Una delle cose che sorprendono di più le persone amiche che vanno a trovarlo – in particolar modo Walter Ferrari e gli esponenti dell’associazione di Modena – è come un uomo apparentemente lontano dagli eventi della vita quotidiana, sia invece sempre aggiornato: come succede, ad esempio, per i risultati delle partite di calcio, che cita uno per uno tra il sorriso dei presenti. Ogni tanto, ma con maggior frequenza di prima, rievoca i tempi dell’infanzia e della giovinezza, specie quando è insieme ai figli. Per quanto dura sia stata la sua vita, ritiene preziose le esperienze fatte, specie le più amare, per l’insegnamento che gli hanno dato: gli piacerebbe anzi scrivere le sue memorie, dice spesso, ovviamente non per intento autocelebrativo, ma per dare un contributo alle nuove generazioni, danneggiate da una “vita troppo comoda” che risulta diseducativa.
E’ passato ormai un anno dalla fine dei clamori di stampa e delle tribune televisive ed appare chiaro che è utopistico pensare di sollevare la pietra tombale posta sul Metodo. Il “catenaccio” è inesorabile, non solo e non tanto per direttive capillari impartite al mondo dell’informazione, ma in quanto la consorteria oncologica può contare su una solidarietà internazionale. Fra l’altro, negli anni tanti sono stati gli annunci di nuove cure miracolose, puntualmente rivelatesi inefficaci, che negli ambienti medici e giornalistici, al di là della malafede, prevale l’opinione che il cancro sia una malattia inguaribile ed ogni nuova proposta l’ennesima illusione. La superficialità collettiva completa l’errore, distogliendo dalla considerazione che mai si era riscontrata una tale moltitudine di testimonianze positive e concordi. Ma tra la gente la situazione è diversa, perché sono troppi i malati che si sono curati, hanno avuto benefici e ne hanno parlato, e troppo sistematici gli insuccessi, ormai notori, delle terapie usuali. Nonostante la mediocrità di tanti sedicenti medici Mdb, gli innumerevoli impostori, la superficialità o disonestà di molti farmacisti, il famoso “passaparola” continua e coloro che avrebbero voluto spargere il sale sulle rovine della terapia debbono constatare la propria impotenza a chiudere una falla irrimediabilmente apertasi nel sistema. Il timone, beninteso, è saldamente nelle loro mani e qualsiasi ospedale, clinica, reparto sono sotto attento controllo: risulta quindi impraticabile l’idea di testare la terapia, pure in conformità alle cervellotiche e pretestuose regole vigenti, avviando uno studio clinico numericamente significativo e randomizzato, seguire i pazienti per qualche anno, raccogliere i risultati, pubblicarli e smascherare così la truffa della sperimentazione.
Non è invece impossibile, anche se molto difficile, assemblare un numero modesto, ma sufficiente, di casi clinici e cercare di pubblicare i lavori su una rivista scientifica; ma a questo si frappongono molteplici ostacoli: anzitutto la difficoltà di disporre di documentazione completa, quindi l’inesperienza dei pochi medici capaci nel campo delle pubblicazioni, e infine lo scarso interesse di molti di loro che, qualora la terapia si affermasse e venisse praticata nelle strutture pubbliche, ridiventerebbero il dottor nessuno. Come ha sempre detto lo scienziato, basterebbe un caso, un solo caso studiato a fondo con onestà e competenza, per arrivare a conclusioni inequivocabili; ma è illusorio pensare di poter cambiare di colpo il mondo e le sue assurdità, ristabilendo un concetto di scientificità incrostato da statistiche truffaldine e, soprattutto, avocato a sé da chi dispone di luoghi di cura.
La Siste, la società scientifica fondata l’anno precedente, potrebbe fungere da centro di raccolta dati, sollecitare i medici che seguono il Mdb a inviare la documentazione fornita dai pazienti, elaborare, completare e pubblicare casistica omogenea e completa. Vengono realizzate alcune iniziative lodevoli, quali la pubblicazione su una propria rivista, forzatamente di modestissima diffusione, di casi clinici e della sintesi del seminario di Fanano di due anni prima, ma non si persegue l’obiettivo primario, anzi, l’unico, che poteva giustificare l’esistenza della società. Luigi non ha negato la sua collaborazione, ove il caso, scrivendo alcuni articoli, senza per questo evitare di manifestare ampie riserve nei confronti di alcuni membri della Siste: o per lacunosa preparazione scientifica o per fondati dubbi sui loro veri propositi. Tale il caso di farmacisti i cui galenici ha riscontrato non essere adeguati o di medici di mediocre caratura a questi associati che, per giunta, abusano del nome dello scienziato mescolando prassi del Metodo con rimedi alternativi6.
In presenza dei pazienti, preferisce non esprimersi negativamente ed in modo diretto sui cattivi farmacisti preparatori, limitandosi a consigliare ai suoi malati di rivolgersi ad altri. Ma quando viene investito con arroganza, il vecchio leone sfodera gli artigli. Un episodio fra i tanti. Nel pomeriggio dell’8 ottobre viene in Marianini a fare le sue fiere rimostranze una farmacista trentina i cui galenici Luigi non consiglia mai.
Adolfo registra il colloquio, che ha anche momenti di comicità. La signora inizia col piede sbagliato, dicendo allo scienziato che “gli ha dedicato la sua vita”; e lui per risposta:
“ […] nessuno glielo ha chiesto, e poi, diciamo le cose come stanno: lei ha fatto i suoi interessi come suo diritto fare. Ma non mi venga a dire che lavora per la mia bella faccia”
La farmacista abbassa i toni, passando a vantare la propria scrupolosità ed i risultati ineccepibili delle analisi fatte. E Luigi:
“Sarà! Ma non vanno. Tanto è vero che quando ho visto che i pazienti non andavano bene, ho suggerito loro di rivolgersi ad altri farmacisti, e le cose si sono sistemate”
Alla fine l’ospite, a corto di argomentazioni, supplica: “provi a darli ai suoi topini, veda come va”. Luigi:
“Io non li do né ai topi, né agli scarafaggi. Piuttosto veda di lavorare come si deve!”
Di un medico, amico della farmacista, lo scienziato ha notoriamente una tiepidissima opinione. Durante un convegno, nel corso del quale il medico aveva preso la parola dilungandosi in dissertazioni che avrebbero preteso di essere colte, Luigi, che ascolta affranto seduto vicino ad una sua paziente di vecchia data, le chiede con aria trasognata: “ma chi è quell’imbecille che sta parlando?” Crediamo possano bastare questi rilievi per fare comprendere le sue opinioni sulla maggior parte di farmacisti e soprattutto di medici “dibelliani”…
Il dicembre 1999 vede lo scienziato dividersi tra impegni vari e le occupazioni usuali del periodo prenatalizio. Tra queste ultime la destinazione di contributi di una certa consistenza ad orfanotrofi, missioni cattoliche all’estero, enti religiosi: compila i vaglia allegati alle richieste di aiuto e poi incarica Carlo di recarsi all’ufficio postale e di provvedere. Come sempre, in silenzio.
Il 22 dicembre, a Roma, contempla con rapimento gli affreschi della Cappella Sistina e, di ritorno, tiene una conferenza alla Camera di Commercio di Modena sull’impiego delle vitamine nella terapia antineoplastica, summa di cultura scientifica e clinica, resa comprensibile anche ai non medici.
Come tradizione, la Vigilia la famiglia Di Bella si riunisce a casa di Adolfo. Luigi è stanco, non si sente bene e l’atmosfera di pace della solennità sembra disturbata come da un “pedale d’organo” triste e minaccioso. Finisce il secolo e finisce il millennio e gli eventi trascorsi non sono certo beneauguranti. I primi giorni del nuovo anno, il 2000, compare una febbre molto elevata, come sempre domata facendo ricorso alle gammaglobuline.
La sua vita si svolge apparentemente senza avvenimenti nuovi. Quasi ogni sera gli telefona l’amica Giuliana Salmon (che, ricordiamo, aveva conosciuto una ventina d’anni prima quando, d’estate, era presidente agli esami di maturità), o Paola Mollica, nipote acquisita, pediatra, alla quale è molto affezionato. Gli telefonano anche molti dei vecchi pazienti che desiderano avere sue notizie, gli danno le proprie, chiedono che prenda in cura qualche congiunto od amico o preannunciano una visita. Sono questi i rapporti che, insieme all’affetto dei figli e dei pochi veri amici gli consentono di stemperare inquietudini ed amarezze: prima fra tutte l’invincibile limitazione della vista. Non si è dato certo per vinto: pur di leggere e studiare, si acconcia a portare un congegno che gli è stato regalato, simile a quello usato da chirurghi e dentisti per illuminare la parte sulla quale intervenire. L’unica differenza è che quello con cui si cinge il capo reca anteriormente una lente di ingrandimento, che riesce entro certi limiti a superare l’handicap e gli consente di dedicare qualche ora allo studio.
Per chi lo ama è uno strazio vederlo chinarsi o allontanarsi dai fogli, nel tentativo esasperante di ovviare al disturbo, celando la disperazione durante lo snervante tentativo di decifrare le righe. Anche un visore regalatogli non riesce a consentire una lettura continuata e senza scoramenti: se ingrandisce adeguatamente le pagine dei libri, non può risolvere il disagio dell’infinita difficoltà nel sistemare in modo adeguato i volumi da consultare.
Nulla, comunque, gli impedisce di tenere conferenze o partecipare a convegni.
Il 2 aprile va con Adolfo a Noventa Padovana, per intervenire ad un incontro sull’etica medica. Gli organizzatori hanno invitato anche un noto giornalista scientifico locale, perché svolga il ruolo di moderatore e questi propone – per garantire una pluralità di opinioni, dice – di coinvolgere anche un primario universitario di Padova. Il discorso del cattedratico è minestra riscaldata: i vecchi e gloriosi medici condotti, l’abnegazione della categoria, i sacrifici eroici della professione; in poche parole, poco manca si materializzi l’immagine di cherubini in camice bianco, circondati da candore d’ali e luccichii di aureole.
Quando Luigi interviene ed affronta argomenti concreti e scottanti, insistendo sulla necessità che il medico sia umile, consapevole della propria ignoranza, autonomo dalle lusinghe del denaro e, soprattutto, quando accenna al verminaio accademico ed ai pesanti condizionamenti delle case farmaceutiche, l’atteggiamento degli altri due oratori, già dall’inizio inquieto e mal celatamente infastidito, vira verso l’ostilità più palese e l’insolenza. Gli rimproverano pubblicamente di toccare tematiche non pertinenti; Luigi non controbatte, ma si limita a dire: “basta, io non parlo più!”.
Subito si solleva dall’uditorio un coro di proteste sempre più rumorose nei confronti dei due. A questo punto, il deus ex machina: si alza una signora, si avvicina al microfono e riferisce dell’esperienza negativa avuta da una parente con un medico che pratica il Metodo, aggiungendo insinuazioni e fole, evidentemente riferitele. Appena finisce di parlare, sgusciando via furtiva, come ad un segnale convenuto giornalista e primario abbandonano il tavolo ed escono ieratici, con impettita aria di indignazione, accompagnati da fischi ed epiteti coloriti dei presenti. Adolfo prende la parola e pacatamente (miracolo del Patrono locale?) dimostra l’assurdità e la falsità di quanto riferito alla signora e da questa ripetuto.
I retroscena vengono poi svelati da un maresciallo dei carabinieri, presente all’incontro: prima dell’inizio della conferenza – riferisce – ha avuto modo di sentire confabulare con la signora i due indignati personaggi, che si sinceravano avesse imparato bene la lezione.
Tornati a Modena, Adolfo vorrebbe precipitarsi a sporgere denuncia, ma il padre lo ferma. Ha visto la costernazione per l’accaduto da parte di chi aveva organizzato la serata e non vuole aggravarla. Una lettera di scuse dell’incolpevole Sindaco, degnissima persona, lo convince definitivamente a desistere. Risponde al primo cittadino di Noventa:
“ […] In centinaia di congressi nazionali e mondiali non era mai successo quel che è avvenuto a Noventa. Il rispetto e la normale educazione per l’ospite sono sempre stati di rigore […] . Spero dimenticare l’affronto, ricordando la cordiale affabilità dei cittadini che Lei rappresenta”
Oltre all’universo, di infinito c’è la meschinità umana.
L’8 aprile un altro incontro – questo positivo – al Carlton di Bologna. Come sempre, quando è annunciata la presenza di Luigi, la sala è piena. Prende la parola il vicepresidente dell’Ordine dei medici di Bologna, Francesco Biavati, il quale interviene sulla libertà di cura e dichiara che è perfettamente legittimo prescrivere la terapia Di Bella. Sarà uno dei pochi esponenti dell’organismo di rappresentanza dei medici che salverà l’onore dell’Ordine, reduce da comportamenti tutt’altro che lusinghieri. Luigi parla a sua volta e risponde ad alcune delle numerose domande rivoltegli dal pubblico, scritte sempre su biglietti che gli vengono letti da Pippo: è l’unico modo di superare i problemi di udito e di vista.
Il mese successivo si consuma il divorzio dalla Siste. Da tempo la situazione era tesa, per i motivi prima accennati e per altri ancora, originati da contrasti con l’AIAN Modena, che pure aveva messo a disposizione della società scientifica due stanze dei propri locali. La Siste, dopo qualche iniziativa lodevole, si arroga ora il diritto di indicare medici e farmacisti, in gran parte inadeguati e – cosa grave – in spregio alla volontà di Luigi, notoriamente contrario a questa prassi, e pretenderebbe un’associazione prona ai propri voleri. Molti altri sono i comportamenti censurabili, sui quali non è il caso di diffondersi: come sempre, col nome Di Bella vogliono riempirsi troppi sacchi vuoti. Lo scienziato aveva chiarito più volte che scopo della società poteva e doveva essere esclusivamente quello di editare articoli di divulgazione scientifica; non vi rientrano certo l’invadere prerogative di un’associazione di volontariato né – tanto meno – atteggiarsi grottescamente a ricercatori.
Un po’ come certi attori improvvisati che, a rappresentazione finita, faticano ad uscire dai ruoli recitati e rientrare nella propria identità, alcuni, stando a contatto con il Prof. Di Bella, hanno pensato di essere divenuti d’amblais, per contagio …scienziati. I rapporti tra la società e l’Aian, sempre fedele alle raccomandazioni di Luigi, si incattiviranno ulteriormente. All’ennesimo episodio sgradito Luigi darà le dimissioni da presidente onorario della Siste. A questa, delegittimata dallo scienziato ed ulteriormente degradata nell’operatività, non rimarrebbe che chiudere: cercherà invece di vivacchiare ancora, e finalmente, quando tentativi carnascialeschi di organizzare autonomi convegni faranno rilevare la presenza quasi esclusiva degli organizzatori, troverà ulteriore conferma che non basta tenersi una mano sotto al panciotto per essere Napoleone.
Il risvolto più amaro della vicenda è l’interruzione di un’antica amicizia con persone che lo scienziato considerava intimi amici e che erano stati tra i promotori dell’iniziativa. Complici malevolenze, menzogne e pettegolezzi da comari, gli “amici” in questione si eclisseranno dopo una lettera che potrebbe venire annoverata tra i classici dell’infamia, lasciandolo incredulo e con un’amarezza che lo accompagnerà fino all’ultimo dei suoi giorni. Come, d’altronde, non rimanere esterrefatti di fronte a simili comportamenti di persone a lui debitrici della vita propria e di quella dei loro figli? Come possono persone ritenute integerrime e apparentemente non sprovvedute, pensare che l’opera di un genio assoluto della scienza, giunto ad un traguardo nemmeno intravisto in decenni dai ricercatori più prestigiosi del mondo, possa essere continuata da qualche farmacista allampanato e da cerusici mendicanti di onorari? Nè può costituire un’attenuante l’essere stati ingannati ed “avvelenati” da soggetti che dedicano la vita ad insinuare e calunniare unicamente per la voluttà di dissolvere gli affetti e le amicizie più datati. Quando si debbono la vita e la serenità proprie e della propria famiglia alla bontà ed al valore di Qualcuno, e si è avuto inoltre l’onore di conoscere un …Qualcuno simile, non esistono scusanti: non ci si dovrebbe permettere nemmeno di farfugliare un “ma”. Il solo prestar fede a maldicenti o megere non solo svela angustia di cervice, ma in questo e nell’altro mondo é colpa ancor superiore a quella commessa da chi calunnia. Riferendosi a tale ennesima, cocente delusione, lo scienziato ripeterà: “a questo mondo, è rigorosamente proibito fare del bene”. Ad ulteriore conferma della sua lunga saggezza, dato che mai avrebbe voluto legare il proprio nome all’operato di chicchessia.
Pippo e Adolfo e, in ben minor misura, Luigi, non erano sicuramente preparati ad affrontare da soli tutte le vicende e le situazioni che si erano succedute negli ultimi anni. Ma mentre Luigi aveva ben chiaro che gli estranei dovevano rimanere fuori casa Di Bella, i figli, timorosi di esporre il padre e recargli involontariamente danno, non sempre si attenevano ad un comandamento fondamentale: il ruolo di chi si era offerto di collaborare avrebbe dovuto essere rigorosamente e formalmente limitato e delimitato, evitando ogni tipo di iniziativa personale altrui e confinando l’eventuale collaborazione di amici o sedicenti amici a consigli e suggerimenti a quattr’occhi; da accettare, o rifiutare senza imbarazzo.
Le conseguenze di queste deroghe faranno presto assaporare loro l’amaro dell’infingardaggine altrui, creando anche screzi che solo l’affetto tra fratelli avrebbe dissolto. E’ inevitabile che attorno alle grandi personalità si formi una “corte”. Ed altrettanto inevitabile che questa si componga in forte maggioranza di quanti sono in perpetua ricerca di vantaggi materiali o di corone d’alloro.
Il lavoro di ricerca prosegue ad onta di microcefalie e deliri da baruffe chiozzotte e partono due lavori importanti per Oxford, dove il 27 agosto inizia il congresso Gordon Research Conference on Pineal cell Biology7. Non si fermano nemmeno convegni e conferenze. Il 27 maggio Luigi interviene ad un convegno organizzato a Verona alla scuola di omeopatia. Non potrebbe esservi ambiente più lontano dalle sue idee, ma non è uomo da ignorare le altrui posizioni, per quanto inconciliabili con gli orientamenti consolidatisi in decenni di studio e di pratica medica: un paio di anni prima, con stupore dei suoi figli, era intervenuto in un convegno organizzato da cultori di discipline ancor più distanti e con pacatezza e bonomia aveva spiegato i motivi del suo dissenso. Una lezione di umiltà e civiltà, ma anche di quella ferma posizione che solo l’esattezza del metodo scientifico può dare. Dirà agli organizzatori della riunione: “alcuni dei riscontri benefici che voi osservate sono reali. Il compito della fisiologia é spiegarne le ragioni”.
Lo stesso fa a Verona, chiarendo l’equivoco tra la medicina galenica, fondata su presupposti rigorosamente scientifici, e l’omeopatia.
L’estate sembra trascorrere tranquilla, in condizioni di salute che non destano preoccupazioni e il 23 settembre tiene una conferenza ad Arezzo, invitato dal locale Comitato costituitosi per assistere i pazienti che praticano la terapia8. Come in ogni incontro col pubblico, sono presenti, e in molti casi intervengono, malati da lui curati e guariti.
Lo stesso avviene a Cordenons, vicino Pordenone, il 21 ottobre. Qui Adolfo è avvicinato da un signore giovane con la moglie, i bambini e la madre: non appena il capofamiglia gli rivela il suo nome, si abbracciano. Nel luglio 1997 Adolfo aveva ricevuto da lui una telefonata disperata: la madre era stata – come si suol dire – “aperta e chiusa”, in quanto il chirurgo aveva trovato un carcinoma intestinale talmente diffuso da ritenere inutile continuare l’intervento. Adolfo gli aveva suggerito il nome di un medico che prescriveva il Metodo e a dicembre la signora, tra lo stupore del radiologo incredulo che aveva chiamato colleghi ad esaminare le lastre, non presentava alcun segno del male. Una cartolina giunta nell’imminenza delle festività Natalizie di quell’anno dava la notizia, aggiungendo: “grazie per il sereno Natale che ci avete donato”. Da allora, nello stesso periodo, giungono gli auguri della famiglia, ulteriormente cresciuta di numero.
L’ultima conferenza dell’anno, il 16 dicembre, è a Grosseto, ed anche in questa occasione l’invito giunge da ambienti che sposano orientamenti molto diversi da quelli di Luigi: la Società dell’Aloe. E’ invitato a visitarne la sede e parla con biologi e chimici che provvedono a preparare farmaci a base di aloe. Per loro non è un colloquio facile, perché lui chiede dettagli sulle piante impiegate, le modalità di coltivazione, le parti utilizzate, il periodo dell’anno nel quale si provvede a coglierle, i procedimenti di preparazione e quelli di conservazione: per concludere poi che, se si mira ad ottenere sostanze antiossidanti, ne esistono altre molto più efficaci, qualitativamente omogenee e meno costose. Ma Luigi Di Bella non ha mai avuto idee preconcette su nulla e su nessuno, mai ha rifiutato un confronto, mai ha espresso opinioni senza conoscere a fondo l’argomento, mai ha usato toni ed espressioni che non fossero rispettose e pacate. Un confronto lo rifiuta solo chi non lo può sostenere.
A metà dicembre giunge una lettera da Roma, scritta da una ragazzina, Giordana Esposito. Gli auguri sono accompagnati da ingenui e commoventi versi:
Quando Lei non ci sarà più,
taglierò il Suo ricordo
in tante piccole stelle,
e il cielo sarà così bello
che tutti si innamoreranno della notte.
Luigi ne rimane colpito. Pochi giorni dopo, gli esponenti dell’Aian Modena gli regalano un poster di grandi dimensioni che riproduce i versi di Giordana su un fondo blu disseminato di stelle.
Questo Natale la famiglia non si riunisce. Luigi non sta bene, malanni di stagione impediscono a Pippo di raggiungere fratello e padre e inoltre incombe il dolore di una grave perdita: quella della mamma di Maria Letizia, in seguito ad una rovinosa caduta con frattura del femore e gravi lesioni interne, inescusabilmente non rilevate nel reparto di ortopedia dell’ospedale civile nonostante chiari indizi. Adolfo accompagna Maria Letizia ed una sua amica alla messa di mezzanotte. Lui non se la sente, invaso com’è da una greve atmosfera di premonizioni. Preferisce recarsi a Marianini, sostare davanti all’edificio silenzioso, guardare le lucette del piccolo abete che ha posto all’ingresso. Sì, “lui” è ancora lì dentro, forse in procinto di assopirsi sulla vecchia poltrona. Non riesce a respingere una voce che si fa strada dal profondo dell’animo: ora è là, nella sua stanza; ma poi …quando…
E’ ancora presto per tornare alla chiesa. Prima un colloquio ed un saluto silenziosi sotto le finestre della vecchia casa di famiglia, dove papà non va a riposare da quattro anni (da quell’aprile 1996 quando fu colpito al capo), e dove mamma non tornerà mai più. Tutto finisce, si spegne senza preavviso. E’ vero, si può immaginare, prevedere, prefigurare, ma si pensa e si vuol pensare sempre che ci saranno proroghe, che ancora non é giunto il momento. Il destino non ha alcun obbligo di preavvertire, e dovrebbero sorprendere unicamente la nostra meraviglia, il nostro sbalordimento.
Solo l’ultimo dell’anno si riuscirà a passare qualche ora insieme, come di tradizione, in una indefinibile atmosfera di malinconica nostalgia del passato e timore per il futuro.
Il 2001 si inaugura con l’ennesima conferenza, che si tiene il 19 gennaio a Verla di Giovo, vicino Trento. Adolfo, che lo accompagna insieme all’amico Carlo Dallari, aveva tentato di dissuadere il padre e, soprattutto, a chi premeva per l’accettazione dell’invito aveva manifestato il timore che il freddo intenso del periodo potesse nuocere alla salute delicata dello scienziato: senza successo. Come sempre, di scrupoli sono ben pochi a farsene, pur di potersi mostrare a braccetto con Luigi Di Bella ed accreditare se stessi: costa assai meno di uno spot pubblicitario…
Il sogno di Adolfo sarebbe che il padre evitasse gli strapazzi delle frequenti trasferte ed accettasse di ridimensionare il numero delle visite: la sua salute se ne avvantaggerebbe e, al tempo stesso, potrebbe dedicarsi a compiere l’opera interrotta anni prima: una monografia sul Metodo. Luigi fa presente al figlio che per la realizzazione di un obiettivo così ambizioso sarebbe indispensabile disporre di validi collaboratori, specialmente per la consultazione di numerosi testi ed articoli scientifici: come prima cosa occorrerebbe procedere ad un’archiviazione precisa di tutto il materiale bibliografico occorrente, quindi avere ininterrottamente a disposizione persone in grado di rintracciare i testi, gli argomenti, e leggerglieli. Gli esponenti dell’Aian, si mettono a disposizione, ma l’attività propedeutica al compimento dell’opera richiederebbe la disponibilità continuata di parecchie persone con un minimo di formazione scientifica. Basterebbero volenterosi studenti di medicina o di farmacia, e ci sarebbero medici in grado di leggere alla meno peggio testi in inglese e capire all’incirca di che parlano: ma sono troppo occupati – novella armata Brancaleone – ad affliggere il pubblico con grottesche riunioni di reciproca legittimazione finalizzate a farsi pubblicità, sciorinare lo smunto mucchietto di terminologia scientifica mandato a memoria in fretta e furia, scimmiottare lo scienziato e illudersi di poter così riscattare il proprio fallimento professionale e umano. Ancora una volta, saranno la mancanza di risorse e di collaborazione a privare l’umanità di un’opera capitale e irripetibile.
Anche la salute desta motivi di preoccupazione: oltre alle febbri che lo hanno colpito nell’ultimo periodo e che suggeriscono un calo delle sue difese immunitarie, spesso ha i piedi gonfi, tanto che è costretto a tenere slacciate le scarpe. Risponde in modo evasivo quando i figli gli chiedono ragione del fenomeno; Pippo, in particolare, vorrebbe si sottoponesse ad esami e indagini, sospettando problemi cardiocircolatori. Ma, quando si tratta della sua salute, nessuno è riuscito mai ad ottenere che si prendesse cura di se stesso.
Il primo marzo, con Adolfo, Dallari e Walter Ferrari, si reca a Mentana, per tenere una conferenza indetta dalla locale associazione. Questa è presieduta da una signora che si era presentata in via Marianini nell’autunno 1997, in condizioni drammatiche per un tumore metastatico plurilocalizzato. Adolfo l’aveva indirizzata ad un medico che si sarebbe successivamente rivelato approssimativo e superficiale, che comunque aveva prescritto gli elementi fondamentali della terapia, con esiti inaspettati. Come diceva spesso l’ideatore del Metodo “il bello della terapia è che a volte funziona a dispetto dei medici che la prescrivono”. Successivamente, dopo una messa a punto dello scienziato, la paziente aveva beneficiato di una remissione totale. Inutile dire che anche questo caso è stato considerato come “aneddotico”.
La sala, come sempre, è piena. Adolfo lo raggiunge nella camera d’albergo dove si è fermato a riposare e riordinare le idee. Gli ha riprodotto a computer il testo che aveva preparato e che comprende anche un richiamo alla sfortunata battaglia di Mentana del novembre 1867: sono forzatamente molte pagine, perché Luigi riesce a leggere solo caratteri fortemente ingranditi. Come prassi, parlerà senza nemmeno consultare gli appunti preparati, e in piedi: lo ha sempre fatto, quale forma di rispetto per i presenti, ma ora sì è aggiunta un’altra ragione, quella di contenere l’affanno che a volte lo prende. Alla fine, risponde ad alcune domande che Adolfo ha annotato e gli legge.
Se il progetto della monografia naufraga, le visite continuano, ed anche la ricerca prosegue, nonostante l’onerosità connaturata a questa attività: reagenti, materiale di consumo, sostanze chimiche ed un minimo di remunerazione da corrispondere a chi collabora. Con l’intento di fronteggiare queste esigenze, Adolfo ha posto su un mobile della saletta d’attesa una cassettina di legno alla quale è incollato il pudico avviso: “per gli oneri della ricerca”. A volte, dopo una mattinata di visite, non vi si troverà nemmeno una moneta da un euro.
Il 14 giugno, a Roma, viene convocata una conferenza stampa per annunciare un evento importante. I giornalisti che avevano improvvisato le piroette più sfrenate per dileggiare ed esecrare Luigi Di Bella avrebbero l’obbligo morale di partecipare, ma se ne vedranno pochi.
Si tratta di uno studio clinico relativo a linfomi non Hodgkin trattati con MDB, pubblicato un mese e mezzo prima da una accreditata rivista scientifica internazionale9. Venti i pazienti esaminati, tutti al III° e IV° stadio della malattia, quindi in fase assai avanzata.
Venti i pazienti esaminati, tutti al III° e IV° stadio della malattia, quindi in fase assai avanzata. Questi, osservati e trattati per un periodo medio di 21 mesi, hanno ottenuto risultati inediti nella storia dell’oncologia medica. Infatti 14 pazienti (il 70%) hanno denunciato nel periodo esaminato una diminuzione di oltre il 50% del tumore e per tutti i sette non pretrattati si è ottenuta la remissione totale e stabile.
Si tratta di successi clamorosi – mai si era raggiunto un 100% di guarigioni – e totalmente incompatibili con le risultanze della cosiddetta sperimentazione, pur non trattandosi di casi diagnosticati tempestivamente, ma – vale ripeterlo – di malati con malattia tanto avanzata da doversi considerare irrecuperabili o difficilmente recuperabili. Articoli in prima pagina di quotidiani? Servizi sui telegiornali? No, nulla di tutto questo. Il consueto silenzio. O, se preferiamo, l’ennesima manifestazione di una patologia endemica nel mondo dell’informazione: la …sindrome di Lapin (nota anche come sindrome …del coniglio).
Luigi non fa in tempo a compiacersi per l’evento, che due settimane dopo, il 28 giugno, giunge una notizia che lo sconvolge: la condanna per una querela sporta nei suoi confronti dal Prof. Conte. Si tratta dello sviluppo di una vicenda iniziata il 28 aprile 1998, quando lo scienziato, nel corso di un’intervista televisiva di Rai Uno, aveva dichiarato di non avere mai firmato i protocolli della sperimentazione il 22 gennaio a Bologna, presente, fra gli altri, il Prof. Conte in qualità di segretario verbalizzante. Di conseguenza, riconoscendo come sua la firma, argomentava che questa fosse stata fotocopiata. Un galantuomo non può pensare che la spiegazione debba ravvisarsi nei giochi di prestigio cartacei indovinati dagli ispettori del Dr. Guariniello. Non ci sembra che una dichiarazione come questa – mera cronaca di fatti accaduti – possa rappresentare un’offesa nemmeno per la persona più suscettibile, né tantomeno configurare, per un magistrato pur sensibilissimo, una ipotesi di diffamazione. Non era stato detto infatti (o sottilmente insinuato) che Conte fosse l’autore di questa falsificazione, né in modo diretto né indiretto.
A parere di tutti i legali che hanno esaminato il caso (ma se ne accorgerebbe anche una matricola di giurisprudenza), una querela simile dovrebbe finire, di volata, nel cestino della carta straccia di un magistrato che tenesse alla propria professionalità; e, in caso contrario, portare ad una segnalazione al CSM, se si fosse convinti dell’equidistanza di tale organismo o, direttamente ad una denuncia.
Ma quando c’è di mezzo il Prof. Di Bella tutto può accadere: da firme che compaiono per magia su documenti ancora non scritti e poi – puff! – scomparsi per effetto di bacchette magiche, a querele presentate, fondate ma archiviate, ad altre subite, infondate, e seguite da rinvio a giudizio e condanna. Basta sfogliare le cronache degli anni 1997 e 1998 per constatare da quante ingiurie, calunnie ed offese volgari, pronunciate da persone volgari, sia stato raggiunto Luigi Di Bella. Ebbene, delle poche querele presentate per ingiurie subite dallo scienziato, in un solo caso è stato disposto il rinvio a giudizio10.
Invece, il 28 giugno 2001, a ottantanove anni, Luigi Di Bella viene condannato a “mesi due di reclusione…” (bontà loro, sospesa) e dieci milioni di risarcimento. Richiama, da vicino, l’infame condanna comminata a Giovannino Guareschi. E’ una sentenza vergognosa, che offende la gloriosa tradizione giuridica italiana prima ancora che la persona accusata, e che non può non definirsi raccapricciante. Si ignora che Luigi Di Bella quel giorno non ha potuto firmare un verbale ancora non scritto – insistiamo – e si ignora che mancano sia l’obiettiva natura offensiva della dichiarazione che la volontà di offendere. Ci sembra, al contrario, che, nella totale assenza di qualsiasi precisazione sul luogo e sulla data della firma, un magistrato avrebbe potuto procedere d’ufficio verso terzi, rilevando nelle circostanze notizia di reato e precisamente di falso in atto pubblico. Invece al danno si aggiunge la beffa: nel dispositivo il magistrato, non pago dell’assurdo giuridico, parla della:
“ […] malizia cui il medesimo ricorse nel tentativo di accreditare la propria tesi, dicendo, nella menzogna, la mezza verità di non essere mai stato negli ultimi tempi a Siena […]. Naturalmente tacque la circostanza che la minuta era stata da lui sottoscritta a Roma, nel periodo intercorso fra il 23 gennaio e la data del 17/2, nella quale fu pubblicato il decreto […]”
Sì, avete letto bene. L’ingiurioso (e scandaloso) inciso “…nella menzogna”, su quale elemento probatorio si fonda? In altre parole, se qualcuno – ed in special modo un magistrato – accusa un cittadino di mentire, non ha forse l’obbligo categorico di dimostrare, con elementi inequivocabili e non con ipotesi prive di qualsiasi riscontro, quale sia il fatto acclarato che prova il mendacio? Che giudizio dare della preparazione giuridica di un magistrato che non rileva, specie per un atto di simile importanza – suscettibile di interessare vita e sofferenza di oltre trecento pazienti – l’assenza di contestualità tra redazione del documento e la firma “delle parti”? Come si fa a scrivere: “ […] sottoscritta fra il 23 gennaio e la data del 17/2!”. Si é trattato di incultura o …di qualcosa ancora più grave? Come giustificherebbe un simile operato il Consiglio Superiore della Magistratura? Saremmo davvero curiosi di apprenderlo. Una vergogna, quindi: non esistono possibili differenti valutazioni. E visto che si osa parlare di “menzogna”, basterebbe raschiare appena sulla crosta dell’apparenza per scoprire persone, luoghi, obiettivi legati all’oscura circostanza.
La condanna ha addolorato e amareggiato Luigi Di Bella, ma, quantomeno, ha contribuito a svelare uno degli artifici ai quali si è ricorsi per precostituire un verdetto totalmente fasullo: quello della sperimentazione. Questa la circostanza sulla quale avevamo dissertato nel precedente capitolo e che dimostra, di per sé, l’inganno alla base dell’intera prova. Un paese nel quale questa è medicina e questa è magistratura, è un paese perduto.
Il giorno dopo Luigi parte dall’aeroporto di Bologna per Catania in compagnia di Adolfo, di una neolaureata che dà una mano nel lavoro sperimentale, di una signora che da qualche tempo funge da segretaria e di Roberto Rinaldi, esponente dell’Associazione di Trento. E’ stato invitato a tenere una conferenza ad Acireale, in occasione del conferimento di un premio, ed ha accettato di buon grado: potrà rivedere la Sicilia e variare per qualche giorno il suo menù di vita. Alle sei del pomeriggio parla al Palazzo comunale, dove purtroppo un mediocre impianto di amplificazione rende comprensibili le sue parole solo ai più vicini. Al ritorno si ritira nella sua stanza, cupo, laconico, affranto per l’ingiustizia che ha subito con la condanna.
L’indomani mattina alle nove si parte per Linguaglossa. E’ una giornata di sole, con il cielo azzurro che sembra farsi sempre più intenso di tornante in tornante. Dopo ogni curva, in alto, la gigantesca mole dell’Etna col pennacchio di fumo in cima. Sfilano case rurali, antiche e splendide ville di campagna per lo più abbandonate od in rovina, l’opulenza dei fichi, gli olivi, l’umile bellezza dei fiori di campo. La prima tappa è al cimitero, a visitare la tomba di famiglia. E’ poi la volta di una visita in Municipio, dove il Sindaco gli dona alcune pubblicazioni sulla cittadina, e di un breve sopralluogo alla casa di via Libertà. Entrerà poi nella Matrice, il duomo di Linguaglossa, e si soffermerà incantato davanti al suo splendido coro ligneo risalente al settecento.
Uscito dalla chiesa entra in una salsamenteria come un cittadino qualsiasi e compra pane e formaggio pepato, incurante del capannello di gente formatosi all’ingresso del negozio.
Il tardo pomeriggio, ad Acireale, riceve il premio “Aci e Galatea”. Nella piazza predisposta per l’occasione, gremita di pubblico, si succedono le cerimonie della premiazione di scrittori, registi, giornalisti. E’ presente anche un guitto televisivo assai popolare che, dal basso della sua sofisticata mediocrità, segue con un ghigno ironico l’anziano scienziato mentre si avvia a ritirare la targa, al braccio di un accompagnatore. Abituato ad essere riverito e celebrato, stizzosamente si lascia sfuggire un “buonasera, eh!”, quasi fosse un sovrano che si rivolge ad un suddito che ha tralasciato di inchinarsi e baciargli la mano. Luigi non sa nemmeno chi sia: ignorare, in certi casi, è sapere. Pochi si rendono conto di trovarsi di fronte all’ultimo grande rimasto in un mondo affollato da giullari e saltimbanchi.
Quando l’indomani mattina, primo luglio, il carrello dell’aereo rientra nel suo alloggiamento dopo il decollo, si conclude l’ultimo contatto materiale di Luigi con la sua terra. Ne è perfettamente consapevole, mentre dal finestrino guarda le onde azzurre del mare farsi sempre più indistinte e sente la struggente immensità del vulcano intridergli l’anima.
Rientrato a Modena, è subito preso dalla ultimazione di un nuovo lavoro, frutto delle ultime ricerche, che spedirà alla segreteria del congresso al quale vorrebbe partecipare11.
E’ il congresso mondiale di fisiologia (I.U.P.S.), che inizia il 26 agosto a Christchurch, in Nuova Zelanda. Adolfo e Pippo, preoccupati al pensiero che il padre possa affaticarsi eccessivamente ed essere colto da malore lontano da casa, insistono perché non si esponga a questo ulteriore strapazzo. Lui rinuncerà in parte per non turbare la serenità dei figli, ma soprattutto perché non si sente bene e teme gli manchino le energie necessarie per affrontare il viaggio e l’impegno.
Non si sbaglia: in agosto subentrano disturbi preoccupanti: inizia ad avvertire affanno, difficoltà respiratorie, disturbi intestinali. Per tre giorni non visita e non mangia nulla. Poi si riprende e sembra ristabilirsi del tutto. Da anni assume con regolarità soluzione di retinoidi, vitamina D3 e melatonina ed ogni mattina estrae da un cestinetto flaconi e bustine contenenti tutta una serie di vitamine e di aminoacidi che lo aiutano nell’attività fisica ed intellettuale.
Si è fatto preparare dall’amico Vigildo Ferrari, precisandone le proporzioni, un composto in polvere di fitina, glutammina, fenilalanina e vitamina B2, e diverse altre formulazioni alle quali ricorre in casi particolari. Anche per placare le forti cefalee che ogni tanto lo assalgono, raramente ricorre ad analgesici: con pazienza, la sua proverbiale pazienza, attende che i due-tre grammi di vitamina B1 facciano il loro effetto. D’altra parte, in tutta la sua vita di medico, ha sempre mirato alla causa e non alle manifestazioni sintomatiche di malattie o problemi fisici. Questa una delle ragioni per le quali è inviso a chi estrae continuamente dal suo cilindro di prestigiatore farmaci di ogni genere, altamente remunerativi in termini monetari, poco, nulla, o meno di nulla in termini terapeutici.
Ha sempre studiato con lucida attenzione la fenomenologia della natura e imparato che i processi vitali hanno ritmi, tempi e modalità che l’uomo non dovrebbe cercare di aggirare e sostituire, ma casomai rafforzare o riparare. Oggi si corre invece al sovvertimento degli equilibri naturali in ogni occasione. Il dolore fisico non è unicamente un evento negativo che la pusillanimità diffusa rende incapaci di sopportare, ma un prezioso aiuto per comprendere il fenomeno che attraverso questo si manifesta e intervenire razionalmente alla radice.
Sì: pazienza, un’immensa pazienza. Si è sempre attenuto a questa regola: nei rapporti col mondo come nella ricerca scientifica. Pazienza, costanza, comprensione, attesa. Il banale dolore, così come un tumore terribile, non si vincono con una mentalità da “tutto e subito”, egida della rovina delle menti attuata nel nostro tempo: altrimenti si imbelletta la malattia, invece di vincerla. In ogni frase ed in ogni gesto si palesa il fondamentale segreto della sua opera, il suo presupposto imprescindibile: educare se stessi ed a se stessi comandare, obbedendo al principale dovere etico dell’uomo. Ma anche unica fonte di libertà. Perché fra le tante cose che possono dirsi di Luigi Di Bella, una sembra sopravanzare le altre sino a farsi cifra della sua personalità: è ed è sempre stato un vero uomo, un uomo libero.
Perfino nelle abitudini più terra terra si nota l’impronta della sua mentalità, impregnata di logica assoluta, di ossequio alla natura, di rifiuto dello spreco. Basta spostare le ante scorrevoli che di fianco alla poltrona dove riposa celano scaffalature metalliche avvitate al muro, per vedere comparire sacchetti di carta o plastica pieni fino all’orlo di spago diligentemente arrotolato, nastri che avvolgevano doni ricevuti, carte variopinte piegate con cura e accatastate. Quando accende la vecchia cucina economica, attende pazientemente che, rametto dopo rametto, la fiamma prenda vita e consenta di introdurre la legna più grossa; poi, quando un gemito pacato avvisa che il fuoco è vivace, apre lo sportellino del forno “per aumentare la superficie radiante”. In ogni suo gesto od azione c’è una razionalità attentamente pensata e programmata.
Con l’arrivo dell’autunno la salute sembra migliorare ed anche il dolore lancinante alla gamba destra, che ogni tanto lo faceva trasalire, cessa. Ne aveva messo al corrente Adolfo e Pippo, dicendo loro che temeva potesse trattarsi di una forma sarcomatosa. Si è curato con le stesse modalità consigliate a migliaia di pazienti. Di lì a qualche mese il disturbo scomparirà, insieme al rilievo che si notava appena sotto il ginocchio.
In autunno riprendono i viaggi. Il 21 ottobre è con Adolfo a Conegliano Veneto, a tenere una conferenza per l’Università della terza età della cittadina.
Al ritorno, quando è già buio, Adolfo coglie il suo sguardo rivolto verso il finestrino: sfila la campagna, si succedono cascinali ora bui, ora rischiarati da luci ambrate; là vivono famiglie, là il focolare domestico costituisce un rifugio per le preoccupazioni e le inquietudini della giornata. Cose che gli sono negate.
Il 10 novembre parte per Roma con Adolfo e Maria Letizia. Deve intervenire ad un convegno fissato per il primo pomeriggio in una sala del Campidoglio. Quando fa il suo ingresso, un pubblico numeroso si leva in piedi e lo applaude ininterrottamente per parecchi minuti. Vedere il vecchio scienziato curvato dall’età, da una vita incredibilmente dura e da anni passati a microscopio, sostare col capo chino, i candidi capelli di seta, ascoltare commosso l’applauso interminabile di centinaia di persone, avrebbe riempito di lacrime gli occhi di qualsiasi essere umano.
Il Presidente della regione Lazio, Francesco Storace, è visibilmente toccato ed afferma che un applauso simile è più eloquente di mille discorsi, passando poi a parlare della sua esperienza personale, che lo ha portato a conoscere molte persone salvate dalla terapia. Conclude annunciando che intende promuovere uno studio osservazionale per consentire la valutazione obiettiva del Metodo: non vuole sovrapporsi ad organismi sanitari – chiarisce – ma dare una possibilità a tanti malati della regione “orfani di terapia”. Allude infatti ai tanti pazienti dimessi dagli ospedali oncologici perché non suscettibili o non più suscettibili di cure ed abbandonati alla sconfortante prospettiva di terapie palliative o del dolore. Perché non ascoltare la voce di queste persone prive di alternative e dare loro una speranza? E questa è una domanda alla quale soltanto chi fa mercimonio di vita e dolore può dare risposte negative o intessute di arzigogoli.
Dopo avere fatto un breve discorso, riposa qualche ora insieme al figlio, la nuora ed alcuni amici dell’Aian Roma all’albergo Majestic, prima di ripartire.
I propositi del Presidente della regione Lazio suscitano ovviamente un vespaio di critiche tra il costernato e l’indignato, a parte alcuni consensi, e sui quotidiani si succedono per qualche giorno articoli ed editoriali i cui toni evocano i lai intonati dal coro ne “i Persiani” di Eschilo: “Ahimè, miseri miseri, mali novelli e immani! Sgorghin le vostre lacrime all’udir tanto strazio […] !”.
Poi, siccome parlare male di Luigi Di Bella è pur sempre parlarne, i biblici anatemi si calmeranno e si punterà ad azioni a quota periscopica in grado, alla radice, di calafatare questa falla. Per qualche tempo i malati laziali potranno contare su un aiuto concreto della regione per curarsi. Poi, anche questa iniziativa di umanità e giustizia sarà bloccata. Ma occorre “dare un esempio”, per cui l’imprudente presidente verrà investito da improvvise tormente giudiziarie studiate a tavolino che lo affliggeranno per anni. Ne uscirà sì con assoluzione piena, ma dopo inevitabile pregiudizio alla sua carriera politica.
In Italia si fa così. Se non si possono eliminare altrimenti, si cerca di inguaiare per via giudiziaria personaggi scomodi, dato che non ci sono problemi nè rischi: chi veste la toga e sbaglia – non importa se per errore o per altro – non non paga e nemmeno deve chiedere scusa.
Dopo qualche giorno gli esponenti dell’associazione romana fanno visita allo scienziato per proporgli, in perfetta buona fede, una lista di medici della capitale ed in regione che affermano di praticare la terapia, così da segnalarli al Presidente: Luigi, deciso e irremovibile, rifiuta però di accreditarli, ben consapevole dell’indistinta mediocrità, professionale e non, dei nominativi propostogli. Ed i fatti gli daranno, come sempre, piena ragione.
Il 18 novembre l’ultima trasferta dell’anno, a Grignasco. Nella prima parte del viaggio in macchina attraversano banchi di nebbia che occultano la campagna e sembrano ottundere ogni preoccupazione. Pranza insieme agli organizzatori della conferenza e dopo essersi appisolato su una sedia, seguìto dallo sguardo apprensivo di Adolfo, parla con una incisività ed una chiarezza stupefacenti davanti all’uditorio che stipa la sala e risponde ad alcune domande rivoltegli. Alla fine della conferenza si avvicina una signora che chiede di poter parlare a quattr’occhi: faceva parte dei 386 arruolati della sperimentazione, si è curata con un protocollo completo e galenici congrui e non c’è più segno di malattia, nonostante le drammatiche condizioni e la diffusa metastatizzazione iniziali. La Asl di competenza le fornisce la somatostatina. Come succede – riferisce – ad altri arruolati con i quali è in contatto: abbiano, purché tacciano. Anche questo è stato nascosto all’opinione pubblica. E’ una cosa tanto iperbolica scorrere la lista dei pazienti della sperimentazione e, parallelamente, controllare quanti sono vivi o, se deceduti, quanto sono vissuti, consultando i registri degli uffici anagrafe? Oppure …occorre l’autorizzazione di qualche comitato etico?
La vita a Marianini continua a svolgersi apparentemente come al solito: Carlo è al lavoro alle sette del mattino, quando Luigi ha già fatto la doccia, preso le sue medicine e sorbito il caffè. A partire dalle sette e mezzo-otto cominciano ad arrivare i primi pazienti, insieme alla segretaria ed a Walter Ferrari, l’unica persona davvero sincera, disinteressata ed affezionata che, insieme al vecchio e fedele Carlo, gli sta accanto giornalmente. Un paio di volte la settimana viene pure Luciano Gualano, col suo marcato accento bolognese e la rumorosa utilitaria diesel: chiede subito notizie “del professore” e poi sale al primo piano ad attendere al lavoro di ricerca. Quando finiscono le visite scende a conferire con lui e vedere di persona come sta. Dopo che questi ha consumato un pasto frugale e riposato una mezz’ora, lo raggiunge nuovamente per riferirgli del lavoro e, prima di sera, fanno insieme il punto della situazione.
Non è facile rapportarsi con Luigi, che pretende sempre una precisione assoluta e, spesso, desidera si rifacciano determinate prove sperimentali nelle condizioni più disparate. Luciano ne rimane contrariato, anche se, riflettendoci, comprende bene le ragioni della richiesta; allo stesso modo in cui comprenderà tante decisioni apparentemente inspiegabili di Luigi, che ha più volte interrotto il programma di esperimenti in corso, proprio quando sembrava si fosse prossimi ad una svolta, per dedicarsi a ricerche apparentemente lontane: come spiegherà anni dopo, sa che nella mente del fisiologo esiste un itinerario disegnato fin dall’inizio e ciò che a lui preme è arrivare alla meta prefissata. E’ talmente pieno di idee, di intuizioni da sviluppare, di interi mondi che sembrano illuminarsi di volta in volta, che il tempo lo ossessiona: il suo tempo; che sa essere ormai poco.
Anche di fronte a problemi che sembrano irresolubili, riesce sempre a trovare la soluzione. Così accade ad esempio nel corso di prove effettuate su cellule nelle quali si cerca di penetrare servendosi del micromanipolatore Eppendorf abbinato al microscopio ad inversione Leica: la punta invisibile dello strumento non riesce infatti a bucare la membrana, in quanto sposta tutta la cellula invece di forarla. Lo scienziato risponde alla domanda su come procedere quasi meravigliato, come si trattasse di cosa di ovvia ovvietà: basterà usare una fonte di infrasuoni e sulla membrana si creerà un varco! E così sarà.
L’anno si conclude in un’atmosfera serena. Se la Vigilia preferisce non muoversi da Marianini e trascorre qualche ora con i figli venuti a trovarlo, l’ultimo dell’anno acconsente a passarlo a casa di Adolfo, che va a prenderlo all’ora di cena. Sceso dalla macchina, si ferma a guardare le luci intermittenti che tingono i festoni poggiati sulla ringhiera della veranda, le altre confuse tra le foglie del giardinetto, mentre una composizione di ceramica bianca che rappresenta la capanna della Natività, tremola dell’ocra di un moccolo al suo interno. Subito dopo l’abbraccio di Maria Letizia, lo accoglie il “buonasera professore” di Ivana Bergonzini, la presidente dell’Aian Modena e di un’altra esponente dell’associazione. All’ingresso, si ferma a guardare l’abete riccamente bardato, il vecchio Presepe, le fiamme che si levano dai ceppi di quercia nel camino. Sì, questa è casa, questa è famiglia. Di solito assai frugale, mangia con gusto il timballo di riso, qualche boccone di luganega e di carne arrostita, accettando anche alcune pesche sciroppate e, immancabile, un buon caffè. Parla volentieri, chiede alle ospiti del loro lavoro e della loro vita e poi si diffonde a lungo sulla figura del medico: “un medico”, dice, “può considerarsi tale solo se ama l’ammalato ed è affascinato dall’ignoto, se cerca di far luce sui misteri del creato e di confrontarsi con questi”.
Dopo avere brindato al nuovo anno, Adolfo lo riaccompagna a Marianini, mentre fontane di fuochi sprizzano e poi declinano dietro le case e sullo spiazzo dell’ex autodromo che costeggia la via Emilia. Qualche bagliore imporpora i muri del laboratorio, che sembra dormire, silenzioso e buio.
Il mese di gennaio del 2002 si affaccia con un tempo freddo e sereno. Luigi accetta, ormai senza più proteste, qualche piatto saporito che Maria Letizia gli prepara il sabato e la domenica. Iniziano però a ripresentarsi rialzi pressori, specie dopo che ha dovuto rioccuparsi della querela, alla quale il suo legale ha frapposto appello: il querelante ha fatto altrettanto, considerando inadeguata la cifra del risarcimento disposta dal magistrato di primo grado. Viene ritenuta idonea a …sopire il bruciore dell’offesa subita la cifra di trecento milioni di lire da devolversi “alla ricerca scientifica in materia oncologica”. Se il quasi novantenne scienziato dovesse richiedere un commisurato risarcimento alle ingiurie ed alle ingiustizie subite, non basterebbe tutto l’oro di Fort Knox.
A Marianini, dopo l’allontanamento dell’ex paziente ingrato e del suo compare medico dei quali si è detto prima, si alternano due medici ad aiutarlo nelle visite. Uno è adagiato sullo standard non esaltante dei suoi colleghi ma, in fondo, buon diavolo; il secondo è una signora che ammette le proprie defaillance culturali, ma fa del suo meglio e si riesce ad aggiudicarsi un po’ di fiducia da parte dello scienziato.
Come abbiamo avuto modo di avvertire, non sono soltanto malati oncologici a ricorrere a lui, ma anche persone affette da sindromi neurologiche o da patologie che nessuno riesce a diagnosticare. Un caso emblematico è quello di un cinquantenne che ormai fatica a camminare anche col l’ausilio del bastone, ed è tormentato da dolori acuti. Ha subito sette interventi alla colonna vertebrale, con l’applicazione anche di protesi, ma la situazione peggiora invece di migliorare. Al mattino riesce ad alzarsi dal letto dopo lunghi e sofferti tentativi, aiutato dalla moglie, e non riesce più ad entrare e uscire dalla sua autovettura. Dopo averlo visitato, Luigi diagnostica – cosa prima nemmeno sospettata – una tabe ereditaria, vera causa del calvario dell’uomo, che ha subito inutilmente il trauma – e i danni – di sette anestesie e sette interventi. Un esame, che sarà eseguito dopo qualche tempo in un rinomato istituto neurologico – il Besta di Milano – confermerà la diagnosi dello scienziato, con ammirata sorpresa del neurologo che ha refertato la risonanza magnetica, il quale chiede al paziente chi sia mai il padreterno capace di fare una simile diagnosi senza Rmn. Alla risposta “il Prof. Di Bella”, il neurologo risponderà con un soffocato “aaah…!”, abbassando pensoso il capo. La terapia consentirà al paziente un soddisfacente recupero della mobilità e porterà alla scomparsa della sintomatologia dolorosa e del bastone.
Quanto al lavoro di organizzazione delle visite, la persona di gran lunga più adatta ed assolutamente immune da influenze esterne, sarebbe stato Walter. La sua presenza giornaliera sarà comunque preziosa e riparerà lo scienziato da disegni pregiudizievoli.
La sincerità, l’altruismo, la bontà dell’anziano scienziato evidentemente incentivano – anziché sconsigliare – comportamenti meschini e moralmente spregevoli: è una delle più tristi e squallide appendici dell’ultima parte della sua vita e, sicuramente, la più vile. Anziché rispetto, comprensione, gratitudine, vi sono persone che mirano unicamente ai propri interessi, approfittando degli impegni di lavoro di Adolfo, che gli non consentono di essere sempre presente. Una di queste persone, che non di rado giunge a Modena, dovrebbe essere ispirata da immensi doveri di gratitudine: ma non è così. Lo scienziato è generoso con tutti e mai si mette su un piedistallo con nessuno; ma tiene particolarmente alla sua “privacy” e non tollera che – a parte gli intimi – si entri nella sua stanza e si frughi tra le sue cose. Un giorno l’individuo in parola arriva mentre Luigi sta visitando; senza il minimo riguardo entra nella stanza del fisiologo, si siede al suo tavolo, sfoglia lettere, scritti e documenti. Ad un tratto la segretaria accorre ad avvertirlo che l’ultimo paziente è uscito e lo scienziato sta per rientrare nella stanza per riposare. Al che il frugatore: “e de che te preoccupi? Tanto, quello, ‘un ce vede”. Al che si alza con tutta calma appiattendosi contro una parete, mentre Luigi, chino, visibilmente spossato, si trascina in cerca di riposo e, effettivamente, “’un lo vede”. Se si dovesse rendere pan per focaccia al prossimo, bisognerebbe rispondere a lacrimose richieste di aiuto con un “me spiace, ma ‘un ci ho tempo per te!”.
Fortunatamente, a queste bassezze si contrappongono comportamenti di segno diverso. Una mattina, avendo a disposizione un po’ di tempo in attesa della prima visita, la dottoressa della quale abbiamo prima fatto cenno parla con lo scienziato, visibilmente corrucciato. Squilla il telefono. E’ Adolfo, che come tutte le mattine saluta il padre dall’ufficio. Abbassata la cornetta Luigi sembra trasformato. La signora gli chiede, quasi a prolungare l’espressione più luminosa che gli ha scorto in viso: “Professore, le vuole molto bene Adolfo, è vero?”. Attimi di pensoso silenzio, e poi: “Anch’io gliene voglio”. Esita brevemente, colto da palesi emozioni e dalla riflessione e: “vede signora, il mio per Adolfo non è affetto. E’ una malattia!”. Un ininterrotto seguito di gioie, soddisfazioni, ricchezze non riuscirebbe nemmeno ad approssimare l’appagamento interiore donato da queste parole. Anche questo era Luigi Di Bella.
Il 22 febbraio tiene una conferenza alla Camera di Commercio di Modena, organizzata dagli amici dell’Aian Modena. Il tema è estremamente interessante: “Febbre e termoregolazione”. Una magistrale lezione di fisiologia che ogni medico dovrebbe avere ascoltato prima di azzardarsi a mettere le mani sul paziente. I concetti di ipertermia, di febbre e le loro differenze sono esplorati e spiegati sia nelle caratteristiche come nelle cause e la superficialità della medicina contemporanea emerge sottolineata ed esemplificata, evocando l’acritico e massivo ricorso ad antipiretici e antibiotici: il consueto microcefalo dirigersi all’effetto anziché alla causa.
La sua mente è prodigiosa e lucida come un tempo, ma non sorretta da analogo vigore fisico. Come dirà in più di un’occasione, il suo dramma consiste nell’essere “giovane nell’intelletto ma vecchio nel corpo”. Non è esattamente così, perché solo ritmi di attività troppo intensi e problemi legati a vicende della vita hanno compromesso una fibra eccezionale, aiutata dalle sapienti misure preventive alle quali si è sempre attenuto. Lo stato di salute è altalenante, ma complessivamente analogo a quello dell’anno precedente. L’importante è evitare strapazzi eccessivi, come ben sa qualsiasi persona gli voglia veramente bene.
Purtroppo sono molto più numerosi coloro che vogliono portare l’acqua al proprio mulino, costi quel che costi. Già da tempo ad Adolfo era capitato di sorprendere la domenica mattina pazienti provenienti dalla Puglia, in attesa fuori dal cancelletto. Persone ovviamente incolpevoli, ma alle quali qualcuno, informato che alle prime ore della domenica lo scienziato era solo, andava assicurando di aver prenotato una visita. Era uno dei tanti modi di “accreditarsi” da parte di un’apocrifa associazione barese, fondamentalmente emanazione di un medico di dubbia eticità e di un farmacista locale di analogo profilo, e dalla quale lo scienziato aveva da tempo preso le distanze. Adolfo faceva sempre presente ai malati in attesa che non c’era alcun rapporto con il gruppo pugliese e che era assolutamente falso fosse stato preso un appuntamento, ma Luigi non voleva sentir parlare di respingerli. Il solito: “ma capisci, è gente che viene da lontano per me! E’ gente che ha bisogno!”.
Una domenica mattina Adolfo sorprende la stessa dottoressa barese a colloquio col padre. Lei ha un fremito quando lo vede, ma continua imperterrita a parlare. Per conseguire un indiretto accredito, ha pensato di organizzare un …”Memorial day” a Bari in occasione del novantesimo compleanno dello scienziato! Chissà perché, quando si vuol gabbare qualcuno si ricorre spesso ad espressioni in lingua inglese! Come se gli indegni successori di Dante non potessero contare su una raffinata autarchia in questo poco lusinghiero campo. Lo scienziato, oltre ad avergli dato la vita, ha sempre cercato di dare insegnamenti al figlio minore, a volte un po’ troppo impulsivo ed immediato: alle sue fiere proteste risponde con un sorriso, ricordandogli che è sua abitudine tacere e lasciar parlare la gente, salvo poi agire autonomamente come gli sembra più opportuno: “un pensiero, una volta rivelato dalla parola, non è più tuo, ma di coloro ai quali lo hai comunicato”. Purtroppo la saggezza non si gira come un assegno.
All’inizio di maggio la sua salute inizia a declinare. La sera del 27 Adolfo lo vede pallido, affaticato nel respiro, silenzioso. Vorrebbe fermarsi ed attendere che il padre si riprendesse, ma questi lo rassicura: si tratta di malessere passeggero e anzi sta meglio – dice – dopo che è ricorso ad alcuni farmaci. La mattina successiva gli arriva invece la concitata telefonata della segretaria: il padre sta malissimo, respira a stento. Arrivato in laboratorio, lo trova abbandonato sulla poltrona, in evidente stato di sofferenza. Lo sguardo é smarrito ma non atterrito. Sul viso un’espressione indimenticabile, quasi uno sfumato sorriso: come se, da una parte, si affliggesse per la sofferenza provocata al figlio, dall’altra già assaporasse la pace della fine. La pressione è 220 su 110, valore critico in assoluto, ma in special modo per Luigi, che è sempre stato un ipoteso.
Nonostante le sue proteste, si chiama il 118. Fortunatamente è di turno un medico capace, che diagnostica subito un edema polmonare ed interviene con due fiale di diuretici e somministrazione di ossigeno. Nel frattempo è giunta L., il medico reggiano, che manda a chiamare un amico cardiologo. Questi ritiene vi siano possibilità di salvarlo, a condizione che si attui urgentemente un ricovero. Il respiro migliora, ma Luigi soffre in modo visibile. Dopo convulse telefonate ad un ospedale privato, l’Hesperia Hospital, e dopo che L. è riuscita a convincerlo al ricovero, giunge l’ambulanza.
Si fanno subito le indagini necessarie: il paziente, oltre all’edema, denuncia fibrillazioni atriali ed un ventricolo è ingrossato (se lo era diagnosticato da solo alcuni mesi prima). Gli vengono somministrati altri diuretici e adrenalina, ma la frequenza cardiaca rimane pericolosamente bassa, dopo essere scesa sotto i 35 battiti al minuto. Anche Pippo, accorso da Bologna dopo la telefonata del fratello, è assai preoccupato. La notte trascorre agitata, in compagnia dell’amico Walter, che non lo perde di vista un istante. Al mattino appare confuso e spossato. Pippo parla con il primario del reparto, che ritiene indispensabile ricorrere ad un pacemaker. Si decide di procedere alla sua applicazione al più presto, una volta completate le indagini radiografiche previste. Lo specialista, dopo averle effettuate, arriva trafelato e parla con Pippo e Adolfo: “non ho mai visto una cosa simile. Vostro padre ha cuore, polmoni, fegato, reni di …di …un uomo di cinquant’anni!”. Si informa sulle medicine che Luigi è solito assumere e, sempre stralunato: “se mi autorizzate, ci scrivo un lavoro e me lo pubblico”.
Alle 14.30, dopo che ha firmato la relativa autorizzazione, viene portato in sala operatoria ed il pacemaker è applicato, regolandolo su una frequenza di 70. Luigi è sfinito ed irrequieto al tempo stesso, insiste per fare ritorno a Marianini, ma occorre controllare il decorso clinico. Nel frattempo la notizia è filtrata e la stampa, sia locale che nazionale, la riporta. E’ tornato lucidissimo, anche se permane il disorientamento sull’ora della giornata. Riferisce, con un pizzico di autoironia, di un sogno angoscioso: veniva portato, attraverso tunnel dalla volta bassa, ad una stazione ferroviaria, dove attendeva l’arrivo di un treno. Probabilmente il pre-anestetico non gli ha impedito di memorizzare il percorso per la camera operatoria, pur in stato di semicoscienza. Scalpita per tornare a casa e, dopo che gli è stato tolto il catetere, si lava e si veste di tutto punto, dormendo in poltrona. Prima che si appisoli, entra una giovane infermiera, un parente della quale è stato curato con la terapia: non appena lo vede, non resiste alla commozione, si mette a singhiozzare e gli bacia le mani.
L’indomani mattina, venerdì 31 maggio, Adolfo e Maria Letizia lo riaccompagnano a Marianini. Lo attende una nuova poltrona con inclinazione regolabile, regalatagli dai figli. Pranza con appetito e riposa tutto il giorno. Sabato migliora ulteriormente e può ricevere Patrizia Mizzon ed altri esponenti dell’Aian Roma, venuti a fargli visita. La domenica trascorre tranquilla, allietata dalla presenza di Giancarlo e Lina Minuscoli. Lunedì va a fare il controllo previsto all’Hesperia e dà disposizioni perché siano avvertiti i pazienti il cui appuntamento era stato rimandato. Adolfo insiste perché riposi qualche altro giorno, ma – come sempre – inutilmente. Dopo una settimana, non solo si è ripreso perfettamente, ma sembra tornato al vigore di qualche anno prima. Piedi e gambe sono nettamente meno gonfie, anche se più di quanto augurabile ed il cardiologo, venuto a controllare la situazione, rileva ancora con un elettrocardiogramma la presenza di qualche lieve fibrillazione. E’ comunque piuttosto sereno e di buon umore: fra l’altro, è arrivata da Reggio Calabria la nipote Paola Mollica, che si ferma alcuni giorni e lo aiuta durante le visite.
Mentre si svolgevano questi eventi non si era fermata l’intraprendenza della sedicente associazione pugliese, che – non potendo contare sul …Memorial day – aveva organizzato per il 30 maggio un convegno a Bari, preannunciando la partecipazione dello scienziato per attirare presenze. Luigi si altera per questa impostura ed il 13 giugno firma una lettera che dispone sia inviata per fax alla Gazzetta del Mezzogiorno e ad emittenti televisive locali, nella quale afferma di non avere nulla a che fare con l’associazione barese e, con l’occasione, tiene a precisare:
“ […] non ho mai delegato o autorizzato alcuno a rappresentare le mie idee e la mia terapia e tantomeno a parlare o scrivere a mio nome. Mi riservo, ricorrendone gli estremi, di segnalare eventuali futuri abusi ed arbìtri alle Autorità competenti. Prof. Luigi Di Bella12”
L’estate trascorre senza particolari avvenimenti e lo scienziato, se appare affaticato, non accusa peraltro disturbi degni di nota. Come sempre la sera parla a lungo con Adolfo, o con Pippo, che viene a trovarlo districandosi dai suoi impegni professionali. Adolfo gli legge ogni tanto alcune sue considerazioni ed il padre lo spinge a riunire quanto ha scritto e farne un libricino, che il figlio decide di intitolare “Amarezze e dintorni”. Si tratta di valutazioni critiche sui medici che dicono di applicare la terapia, sull’inadeguatezza a continuare il suo percorso da parte di chiunque gli si sia avvicinato, di prospettive concernenti l’opera del padre. Luigi verga alcune righe, destinate a fungere da prefazione:
“Raggiungere la mia età e leggere le scarne e sante verità che seguono, non è di tutti i padri; anche per questo ringrazio un destino movimentato e originale. Fui l’ostetrico di mia moglie. Quando Adolfo aprì gli occhi alla luce del sole, gli misi in bocca un cucchiaino con poche gocce di caffè: e furono i primi atti della sua vita. Ora non è lontano il giorno nel quale esalerò l’ultimo respiro, ma ho già creato un figlio, che mi chiama ‘papà’, mi sorride come i primi giorni, sa dare forma forbita ai più profondi sentimenti umani e della famiglia. Non avrei potuto aspettarmi di più. So che non morirò più completamente, per aver lasciato qualcosa di memorabile. Sono degno? Lo diranno gli altri. L’animo mi dice tuttavia che non sono vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto. Prof. Luigi Di Bella. Modena, settembre 2002”.
C’è tutto il chiaro presentimento della morte vicina, il culto della famiglia, l’amore per i figli, la consolazione nel vedersi rappresentato e continuato da loro; e si coglie lo sguardo rivolto a tutta la sua vita, tessuta col filo d’oro dell’amore. La vita del Poeta della Scienza.
I figli non leggono in queste righe, perché lo rifiutano istintivamente, quello che invece emerge con evidenza: è la prefazione al suo congedo. E proprio “congedo” è intitolato l’ultimo paragrafo dell’opuscolo; risposta inconscia al saluto della prefazione. Queste le ultime righe, riferite ad alcune frasi e raccomandazioni ascoltate dal padre:
“Ritrovo, come ogni istante della vita, l’uomo, il padre, anzi, il papà e ricordo spesso il giorno in cui, sul treno che mi conduceva lontano da casa per gli obblighi di leva, invaso dalla tristezza, trassi di tasca il portafogli. All’interno, cuciti dalla mamma, tre ninnoli d’oro regalatimi da papà: il cuoricino del suo amore, uno strumento musicale simbolo della vocazione della mia vita, la casetta della famigliola che mi sarei formato presto. Allora mi calmo, accantono gli eroici furori e, come tutti coloro che davvero lo amano e lo comprendono, vedo risalire e luccicargli negli occhi, dal profondo dell’anima, l’amore e l’estasi, il dolore e l’amarezza di tutta una vita.”
Il 14 settembre sono insieme a Fanano, nella sala del convento delle Suore Cappuccine, dove altre volte aveva parlato. Dopo il saluto del Sindaco, prende la parola Luigi. E’ l’ultima conferenza, l’ultima apparizione pubblica, l’ultima visita a Fanano dello scienziato.
I primi di ottobre comincia a stare male. Il pomeriggio del giorno 7 Adolfo lo sorprende sofferente, inquieto. La minzione è frequentissima ma scarsa, mentre iniziano a tormentarlo dolori sempre più forti al basso ventre. Gli spasmolitici ai quali ricorre risultano poco o transitoriamente efficaci, mentre la pressione sistemica sprofonda ad un 88 su 46. Solo un’iniezione di analgesico, che chiede ad Adolfo di fargli, gli consente di riposare qualche ora. La mattina successiva tutto sembra scomparso, ma all’ora di pranzo riprendono i dolori, placati da un’altra fiala di analgesico. Nei due giorni che seguono, è tutto un alternarsi di pause di requie e di sofferenza acuta e dopo un illusorio miglioramento sabato 12 è costretto a fare uso nuovamente di spasmolitici ed analgesici, con esiti mediocri.
Le analisi fatte segnalano un valore di creatinina talmente critico che la situazione sembra irreversibile. Si rende necessario un ricovero al quale si oppone recisamente. Dopo lunghe insistenze ed ulteriori sofferenze, accetta di ricoverarsi a Carpi. Qui provvedono subito a cateterizzarlo e di colpo la vescica si svuota ed il dolore cessa d’incanto. Sorride sollevato non appena cessa il tormento. Sono accorsi gli amici più fidati, tra i quali Giuliana Salmon, Walter Ferrari, Ivana Bergonzini, Carlo Dallari con la moglie. Occorre fare indagini mirate per decifrare la causa del problema.
Non manca il solito medico saccente che si sente tanto più autorevole quanto meno lo è: uno di quei ragionieri della medicina convinti, a furia di recitare la parte con i pazienti, di essere davvero un luminare e che, abituati agli insuccessi, credono di corroborare la loro supposta eccellenza declamando prognosi tragiche. Alla domanda di amici e familiare sulla causa del problema, il medico sentenzia, quasi sbuffando: “ma cosa volete che sia? E’ un cancro della prostata!”.
Del quale le indagini esperite successivamente non mostrano nemmeno l’ombra. Che notizia succulenta e clamorosa sarebbe se il Prof. Di Bella soccombesse ad un tumore! In realtà Luigi sa perfettamente di cosa si tratti: ma lo tiene per sé. Cessato il dolore che lo torturava da giorni, appare euforico, ciarliero e, come sempre, meraviglia tutti per la velocità della sua ripresa. Pippo torna il giorno dopo con la figlia Giulia, che porge una rosa al nonno: un gesto gentile che lo intenerisce. I due fratelli si rassicurano l’un l’altro e si convincono (o cercano di persuadersi a vicenda) che il peggio è ormai passato.
Domenica 13 ottobre è un giorno triste, costellato da timori, anche se non vi sono fatti nuovi e Luigi sonnecchia, spossato dalle sofferenze passate e dai diuretici. A parte una febbricola intermittente, le condizioni sono buone. La cistoscopia fatta il giorno dopo non rivela la supposta via di comunicazione tra vescica e intestino che gli creava tanti disturbi, anche perché Luigi, infastidito, non acconsente che l’esame venga completato. Sabato 19 ottobre, con suo grande sollievo, è possibile tornare a Marianini: è triste, sconsolatamente triste vederlo seduto su una carrozzina, all’ingresso dell’ospedale, mentre attende di salire in macchina, fissato con curiosità da infermieri e medici di passaggio.
Comprensibilmente provato, è sfinito e mortificato dal catetere: lui così pudico, così riservato, sarà costretto a consentire ad altri di occuparsi di lui, del suo corpo. Prima l’udito, poi la vista, ora la condanna a rimanere seduto in poltrona. Walter Ferrari si prodiga oltre ogni dire, ma si rende indispensabile, per la notte, ricorrere ad un’infermiera. All’inizio non gradisce la presenza di estranei, ma poi prende a ben volere la signora scelta per assisterlo.
Tra alti e bassi le sue condizioni sembrano migliorare e nel giro di pochi giorni – non c’è protesta che tenga – ricomincia a visitare. All’infermiera iniziale subentra poi Concetta, una signora napoletana dagli occhi celesti, bassina e tondeggiante, che si adatta a meraviglia al carattere ed alle abitudini del difficile assistito: riesce sempre a comprendere quando questi preferisce il silenzio o, invece, è disposto a conversare, raccoglie qualche confidenza e la ricambia con le sue. Nasce così un rapporto di fiducia e amicizia, che coinvolge anche Adolfo e Walter e si rivelerà provvidenziale: perché, nonostante la condizione di Luigi, c’è chi cerca a qualsiasi costo il proprio tornaconto.
Adolfo, se il padre non avesse problemi di salute, risolverebbe tutto com’è solito fare, cioè in modo spiccio e traumatico, ma è frenato dall’esigenza di evitargli altre amarezze e altre delusioni. L’unica è tacere, stare con occhi ed orecchi aperti, evitare discussioni, ma far capire al tempo stesso che si sta in guardia. Ci sono sempre jene e sciacalli attorno ai leoni feriti.
Non potrebbe profilarsi un Natale più desolato, quando giunge, benemerita, l’iniziativa degli amici dell’Aian, che convengono di passare la Vigilia con il “loro” professore. La sera della Vigilia, lui è inizialmente taciturno e infastidito da tante presenze. Poi si rende conto dell’affetto degli ospiti ed inizia a parlare volentieri, fa qualche battuta, chiede a ciascuno della propria vita e si dilunga su Pippo e Adolfo, rievocando con tenerezza i tempi lontani della loro infanzia. Cercano tutti di evitare il vociare, di parlare contemporaneamente, si raggomitolano su una sedia ed ascoltano, paghi di stargli vicini. Anche Ciccina sembra guardarlo dalla fotografia sul tavolino antistante alla poltrona: l’hanno realizzato Carlo e Walter secondo le sue indicazioni, con profilati metallici, legno e plexiglas: alla luce di una lampada a morsetto, può scorrere le riviste scientifiche che Adolfo e Walter provvedono ad ingrandirgli con la fotocopiatrice, o Pippo gli porta, ed ascoltare la radio. E’ soddisfatto anche per l’ultimo lavoro scritto, pubblicato da un’importante rivista scientifica internazionale13.
Il suo ultimo lavoro. La sera del giorno di S. Silvestro, presenti Adolfo e Walter, propone a Pippo di scrivere insieme un libro sul Metodo che compendi il profilo teorico sperimentale con quello clinico: da una parte, desidera evitare che qualcuno degli scugnizzi in camice bianco saltellanti intorno al suo nome “scriva stupidaggini dell’altro mondo” quando lui non ci sarà più; dall’altra, che siano uniti, quasi suggello per l’eternità, il nome suo e del figlio maggiore14.
Il 2003 si apre con segni incoraggianti: la salute migliora e i dolori muscolari ed articolari che lo avevano afflitto gli ultimi mesi si attenuano sensibilmente. Le sue abitudini mattutine non sono mutate, a parte la prima colazione, che ora è insolitamente ricca: Walter si bea a guardarlo, visto che da anni lo vedeva limitarsi ad una tazza di caffè. Sembra riacquistare anche fiducia e voglia di reagire e visita i pazienti senza affaticarsi eccessivamente, aiutato ora dai due medici che si alternano per redigere le prescrizioni. Parla volentieri con i visitatori e, ogni sera al telefono con Giuliana Salmon. L’amica viene abbastanza di frequente, si siede accanto alla poltrona e, dopo che conversano un poco, prende l’abitudine di leggergli i racconti di Camilleri, che a Luigi piacciono, perché vi ritrova la descrizione di luoghi, caratteri, espressioni che lo trasportano nelle magiche atmosfere della sua Sicilia.
Ci si è adagiati un po’ tutti su questo apparente rifiorire, irrazionalmente fiduciosi che la sua fibra possa superare ogni problema: si crede così facilmente a quello cui si vuol credere! L’ipotesi prospettata dai medici di Carpi non è chiara né dimostrata: un urologo di buon senso ha riscontrato sì un’ipertrofia prostatica, ma assolutamente compatibile con l’età, mentre la presenza di aria in vescica viene attribuita a qualche piccola fistola che potrebbe rinsaldarsi da sola. D’altronde è lo scienziato stesso a rafforzare col suo comportamento l’ottimismo. Adolfo gli ha portato da via Don Minzoni – dove si reca settimanalmente per aprire le finestre, pulire, caricare il vecchio pendolo e gli orologi della casa – un bastone che il padre aveva acquistato durante le sue passate incursioni nelle botteghe di qualche antiquario: il manico ha la foggia di becco d’uccello ed è d’avorio, come il puntale.
Luigi si aiuta col bastone e compie parecchi giri intorno al tavolo della sua stanza per tenere esercitati i muscoli delle gambe, a volte con una rapidità che sorprende. Il freddo di gennaio è annullato dall’amata cucina economica, che, accesa dalla mattina alla sera, scandisce le ore della giornata con la sua voce rauca e rasserenante.
Il 21 gennaio appare sui quotidiani una notizia che non fa certo piacere ai “soliti noti”. Un sondaggio curato da un giornale ed effettuato tra i cittadini dell’Italia Settentrionale, rivela che “…il Prof. Luigi Di Bella è ritenuto il miglior scienziato che il Nord Italia abbia mai avuto. Il Professor Di Bella si è imposto con la bellezza di 4.737 voti, […] arrivando prima di Alessandro Volta, Guglielmo Marconi e Leonardo da Vinci”15.
Qualche giorno dopo giunge una dichiarazione assai enigmatica di Rita Levi Montalcini, pure così ostile nei giorni della sperimentazione. Venuta a Modena per una conferenza agli studenti e chiamata ad esprimersi sul Prof. Di Bella, dichiara:
“Quella è una persona valida dal lato umano, di grande serietà negli studi, ma la sua cura sembra un tentativo non portato a termine. Da quel che conosciamo oggi, non è emersa una validità univoca e non si giustifica per questo l’abbandono di altre terapie già conosciute e testate”16
Strana moderazione e strano possibilismo, specie quel “…non è emersa una validità univoca”, dopo aver dichiarato in passato che nemmeno un paese del terzo mondo avrebbe accettato di sperimentare la terapia! Il giornalista commenta aggiungendo che “…tra i due c’è una stima reciproca personale”. Effettivamente Luigi, parlandone, ha sempre espresso la sua ammirazione per la preparazione e la perizia tecnica del premio Nobel, pur non nascondendo perplessità sul merito, l’originalità dei lavori e le ragioni del conferimento del premio, che insistenti indiscrezioni – peraltro filtrate sino ai mezzi di informazioni del tempo (ancora la censura doveva essere resa categorica e sistematica come oggi) – affermavano doversi all’influenza di una casa farmaceutica.
I problemi iniziano, inaspettati ed all’improvviso, a partire dai primi di febbraio: il catetere tende a intasarsi, a causa di non meglio identificati frammenti, provocandogli dolori acuti che solo i lavaggi, fatti da un infermiere o da Adolfo, riescono a far cessare. Lui non si pronuncia sulle ragioni del fenomeno; anzi, risponde in modo evasivo, e solo in seguito i figli riescono a comprendere, o meglio, a indovinare il motivo della sua reticenza. Ricorderanno infatti come, anni prima, si fosse lamentato di coliche addominali, non frequenti ma molto acute, tanto da fargli pensare sul momento a qualche male insidioso.
Essendo umanamente impossibile convincerlo a sottoporsi ad opportuni esami, ci si può basare solo su ipotesi, seppure assai probabili. Si è sempre alimentato senza il minimo riguardo verso se stesso, con cibi tenuti per giorni e giorni nel frigorifero ed a volte persino striati di muffa. Chi lo ha conosciuto sa, d’altronde, quanto fosse coriaceo di fronte alle raccomandazioni di avere maggior cura della propria salute ed accettare che i figli e le nuore si occupassero della sua vita privata. Queste abitudini alimentari – per le quali avrebbe severamente redarguito qualsiasi paziente – avevano probabilmente provocato o favorito gravi fatti infiammatori e, verosimilmente, fenomeni prossimi ad una peritonite, causato lo sfaldamento e la perforazione di un tratto intestinale e, con il protendersi di questo, della parte superiore della vescica.
L’unica possibilità sarebbe stata quella di procedere chirurgicamente, con un intervento di tipo mutilante. Cosa che lui non poteva accettare, perché lo avrebbe fatalmente condannato ad una vita inattiva e sedentaria, oltre che metterlo in una condizione che la sua mentalità mai avrebbe potuto accettare: dipendere totalmente dagli altri.
Da febbraio si fa quindi sempre più frequente l’esigenza di procedere a lavaggi, quando non di sostituire il catetere, provocandogli acuta sofferenza. Il sabato pomeriggio e la domenica Adolfo li passa con lui, da solo o con Maria Letizia, portando con sé primi piatti e pietanze cucinate da lei. Poco prima dell’ora dei pasti riscalda le vivande nel forno della cucina e quindi gliele porge su un vassoio.
Padre e figlio consumano il pasto vicini, uno sulla poltrona, l’altro su una sedia. A volte parlano a lungo; altre Luigi si assopisce, con la mano del figlio sulla sua. Sono ore di tristezza e di ansia, mentre Adolfo spia angosciato il primo apparire di una smorfia di dolore ed il primo serrarsi della mano di Luigi alla sua.
Il laboratorio è immerso nel silenzio e nella nebbia; si ode ogni tanto – quasi consolatorio – il passare di una macchina per la via, lo scricchiolio di un mobile, qualche rumore proveniente dagli edifici confinanti, mentre il ticchettio di un orologio da tavolo – dai caratteri insolitamente grandi, perché lo scienziato possa distinguere l’ora – cadenzano tensione e preoccupazione.
Le giornate positive risollevano il morale, quelle buie lo deprimono. Ma quando la salute sembra discreta, si arriva a pensare che la situazione possa cambiare, come tante volte è accaduto in passato. E sono queste oasi di serenità, questi intervalli, a dare la forza di sperare e andare avanti. Un giorno negativo e con frequenti episodi di dolore, un medico di Modena che assiste alle visite ha un pensiero affettuoso per lo scienziato: viene di pomeriggio a fargli visita con un bambino curato anni prima da Luigi per una malattia micidiale, un osteosarcoma ad una gamba. I genitori erano riusciti ad evitare il ricorso a cure chemioterapiche e rassicurare la gendarmesca vigilanza ospedaliera dicendo che si sarebbero rivolti ad oncologi esteri, avevano seguito la prescrizione MDB ed il bimbo era guarito. Mentre, sofferente, fissa il piccolo saltellare lungo i gradini della scala, lo sguardo gli si intenerisce di soddisfazione per il bene procurato e perfino il dolore sembra allontanarsi, quasi non osasse comparire di fronte a quell’ennesimo miracolo: uomini della sua grandezza d’animo riescono ad arginare il dolore compensandolo con il benessere altrui, vissuto quasi come proprio.
Una sera rimane particolarmente impressa nella memoria di chi gli sta vicino. Walter, che è stato insegnante di materie tecniche presso un istituto professionale, parla degli elementi transuranici e chiede una sua opinione in proposito. Lui, dopo avere citato gli studi di Seaborg e Mattison ed elementi come il darmastadtio ed il roentgenio, amplia il discorso alla tendenza negativa di storcere la natura per adattarla al limitato orizzonte della mente umana.
Sì – dice – è possibile ipotizzare elementi con peso atomico ancora superiore a quelli conosciuti, ma la loro intrinseca instabilità trasforma la materia in energia: categorie che, insieme a quelle di spazio e di tempo, sono dinamicamente connesse, mentre l’uomo tende istintivamente a separarle e differenziarle, come a sfuggire all’inquietudine indotta da concetti che non riesce ad afferrare. La grandezza dell’uomo passa inesorabilmente sotto il basso arco della coscienza dei suoi limiti. L’umiltà non mortifica, ma, al contrario, nobilita l’essere umano. Poi, riferendosi a fenomeni che ha osservato nel corso delle sue ricerche, approda a conclusioni esistenziali.
“Sulla membrana di una cellula si verificano reazioni bio-chimico-fisiche della durata anche di un miliardesimo di secondo, che ne inducono altre, di analoga durata ed altre ancora, magari in distretti lontani dell’organismo; per cui, nel giro di un secondo, un intero mondo può essere nato, cambiato e tramontato. L’uomo non riesce a percepire che qualche tratto rudimentale di queste fenomenologie. Che non avvengono per caso, ma seguendo un itinerario logico, necessario, prefissato, per cui si può concludere che ogni fenomeno relativo, in particolare, agli organismi viventi, è sempre il più diretto, il più efficace, il più affidabile tra quanti si possono ipotizzare. Questo disegno di immensa e spaventosa complessità è, senza il minimo dubbio, frutto di una mente superiore, immensamente superiore a quella umana. Che creazione vi sia stata è una realtà scientifica”17
Il 13 marzo ricorre il decimo anniversario della scomparsa di Ciccina. Incarica Adolfo di pubblicare un avviso sulla pagina dei necrologi e parla a lungo di lei, della sua bontà, dell’esistenza tribolata che la sua vita le ha procurato. I ricordi si succedono, ora appannandogli lo sguardo di nostalgia, ora accendendovi un’espressione insolita: quella di chi si accinge ad entrare in quel mondo parallelo che tutti cerchiamo invano di immaginare. Torna anche l’evocazione dell’azzurro dei suoi occhi, gocce di mare sul candore del viso; mistero che si sente, che invade, ma è impossibile definire e decifrare. Come quello del mare: sempre che si tratti di cose diverse.
Il 26 aprile, sabato, vuole ricordare anche Deda. Sta meglio del giorno precedente, quando ha sofferto molto: una medicazione fattagli da un bravo infermiere specializzato fa sì che bruciore e dolore siano attenuati. Sarebbe troppo faticoso raggiungere Fanano e quindi si opta per una chiesa non lontana da Marianini, la chiesa del Murazzo, il cui parroco viene a benedire il laboratorio nel tempo di Pasqua. Trova conforto nella presenza di persone che gli vogliono bene: oltre ai suoi figli, Giancarlo e Lina Minuscoli, Ermanno Ferrari – il padre del bambino la cui malattia, nel lontano 1966, aveva accelerato le sue ricerche – i “fedelissimi” di Marianini, Giancarlo Bergamini, Carlo Dallari, Walter Ferrari, gli amici dell’Aian Modena e Paola Mollica, giunta a Modena la sera prima. Lui assiste alla funzione in piedi, appoggiandosi ad una sedia. C’è qualcosa di struggente nell’aria, come si rivivesse per magia un giorno del passato, e al termine della Messa Luigi bacia la mano del sacerdote. Chiede poi di poter andare a rivedere la casa di via Don Minzoni. Entrato, guarda le stanze in ogni loro particolare e poi, nella camera da pranzo, si siede nella poltrona preferita di Ciccina. Chi lo conosce coglie la sua trattenuta commozione, segue il suo sguardo che sembra accarezzare mobili ed arredi e capisce che non è il saluto di chi arriva, ma di chi si appresta a partire. Ricorda il tempo nel quale la casa era ancora in costruzione, parla della scelta minuziosa dei marmi e delle modifiche che aveva preteso perché l’appartamento risultasse solido e robusto oltre ogni dire. Vedendo i mobili senza polvere e oliati, i pavimenti lucidi, il pendolo in moto come se la casa fosse abitata, ha anche la confortante certezza che quel nido familiare, al quale aveva dedicato il cuore, sarà sempre curato e mantenuto come lui lo lascerà.
Il sollievo di sabato dura poco: lunedì 28 ricominciano le sofferenze. Gradualmente la situazione peggiora ed è straziante vederlo con gli occhi ora sbarrati, ora socchiusi per il dolore. E’ un continuo ricorso a lavaggi, sostituzioni, nuovi tentativi, somministrazione di farmaci. Adolfo e Walter hanno gli occhi rigati di lacrime vedendolo in poltrona, mentre muove il busto avanti e indietro e ripete “ma finirà pure! Ma finirà pure!”.
Nonostante le proteste del figlio minore, gli chiede di annotare alcune sue volontà e quindi di fare un ingrandimento per consentirgli di rileggerle. Non si tratta di disposizioni aventi natura patrimoniale, ma di raccomandazioni fatte ai figli e di brevi considerazioni: “non pubblicizzate mai nomi di medici” – scrive – “sono proprio i medici ad avermi capito di meno, perché, a differenza di altri, credono di sapere qualcosa”.
In quel “credono di sapere qualcosa” c’è tutto. Perdona coloro che gli hanno fatto del male, compresi quanti non sono stati trattenuti né da sentimenti di gratitudine né dalla sua “triste vecchiaia” e conclude scusandosi per il “disagio” procurato dalle sue infermità.
Le visite mattutine, pur diradate, sono l’unica occasione per sentirsi vivo, il che significa per lui essere utile al prossimo, imparare, mettere a frutto la conoscenza, l‘esperienza accumulate. Il prezzo pagato per questa attività forzatamente limitata è la spossatezza che gli provoca. Per una vita si è allenato a superare dolore e stanchezza, a tacitare il fisico che implora riposo e sosta, ma oggi l’età e, ancor più di questa, un organismo minato da una eccessiva severità verso se stesso, presentano il conto. Si può sempre fare di più, è il suo motto.
La parte più dura della giornata coincide con il pomeriggio e le lunghe serate e nottate. Si sente impotente, condannato, e l’amaro di innumerevoli episodi dell’esistenza, non compressi dalla continua attività alla quale era abituato, riemerge a tratti, rabbuiandogli il cuore. Si aggiunge il rammarico per i disagi che ritiene di provocare ai figli e comprende bene quanto siano acute l’ansia e l’angoscia che li invadono. Più volte dice ad Adolfo: “dovete farvi una ragione della mia morte, abituarvi all’idea”. Qualche volta si guarda intorno un po’ commosso e un po’ sconfortato: “chissà cosa ne sarà di questo laboratorio, della casa!”; e tra sé saluta i simboli della laboriosità ed oculatezza di tutta una vita, si raffigura quelle pareti, gli oggetti, gli amati libri quando non ci sarà più. “Da tempo mi sono riconciliato con la morte”, mormora una volta al figlio minore con espressione serena, “e sono in pace con me stesso: non posso rimproverarmi di essere stato con le mani in mano, perché ho sempre studiato, lavorato, fatto il mio dovere”.
Qualche saltuaria pausa di requie è sufficiente ad ispirargli la voglia di combattere ancora e riesce addirittura a strappargli sorrisi. Così accade una sera, quando una dottoressa viene a trovarlo portandosi dietro il suo amato Labrador color miele. Il cane, che mai era stato a Marianini, incontra lo sguardo di Luigi che lo fissa e che esclama: “e tu che ci fai qui?”. Il Labrador lo guarda a lungo e poi, nonostante abbia l’abitudine di stare sulle sue con gli estranei, gli si avvicina e si sdraia ai suoi piedi come fosse lui il suo vero padrone. Forse cani e gatti sentono istintivamente quello che la maggior parte degli uomini non riesce a capire.
Con l’arrivo del mese di maggio le condizioni si fanno ancora più precarie e scompaiono i pur brevi intervalli di benessere.
La mattina di domenica 25 maggio, dopo alcuni giorni nei quali ha rifiutato di mangiare e di ricorrere a qualsiasi farmaco, il respiro si fa pesante, quasi rantolo, mentre non riesce a reprimere lamenti per i dolori che lo travagliano. Adolfo e Pippo cercano di convincerlo della improrogabilità di un ricovero, insistono, ma lui si mostra irremovibile. Non è possibile assistere passivamente a sofferenze così crudeli ed alla palese determinazione di attendere la fine. Si contatta un medico che lavora al pronto soccorso e anche lui conosce, perché riconsideri le sue decisioni, ma non c’è nulla da fare: lui rifiuta e con l’ambulanza che attende nel giardino trova ancora la forza di opporsi: “…no… no…..è un abuso, è un abuso …nella mia vita non ho mai fatto del male a nessuno: perché volete farlo a me?”.
Vorrebbe spegnersi nel suo laboratorio, la sua Marianini, nella stanza dove ha trascorso anni di lavoro, di riflessione, di ricordi, di solitudine. Pippo gli applica cerotti di oppiacei, mentre Concetta tenta disperatamente di liberarlo con un ennesimo lavaggio, senza esito. Padre Efrem, un anziano cappuccino che Pippo ha mandato a chiamare, gli impartisce l’Estrema Unzione quando, nel pomeriggio, è in stato di totale incoscienza. Di sera è totalmente privo di coscienza, il capo reclinato sull’appoggiatesta della poltrona, e respira debolmente.
Quando ormai è notte, dopo che Adolfo ha avuto un malore e ha dovuto essere rianimato, viene chiamato il 118 e lo scienziato è ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale civile, dal quale viene trasferito nel reparto di medicina interna del vicino Ospedale Estense, al terzo piano, dopo i primi provvedimenti d’urgenza. Si riscontra uno stato precomatoso e, tenuto conto della sua età e dei pregressi problemi cardiaci, si teme il peggio da un momento all’altro. Invece, con sorpresa di tutti, il giorno dopo si risveglia, perfettamente lucido, discute serenamente della sua situazione con i medici, parla con gli amici che vengono a trovarlo, mangia con relativo appetito e torna ad assumere le sue consuete medicine: ma è un’estate di San Martino.
Adolfo, Maria Letizia e un’amica, seduti su una panchina nel giardino antistante l’ingresso dell’ospedale, vogliono convincersi – e cominciano davvero a farlo – che si tratta dell’ennesimo verificarsi di uno dei miracoli ai quali Luigi ha abituato chi gli sta vicino. Nel reparto si respira un’aria non ostile, ma sicuramente imbarazzata, da tegola caduta in testa: si percepisce facilmente che il Prof. Di Bella è un malato “ingombrante” e che i medici si sentono addosso gli occhi della città.
Il Policlinico è stato dribblato per l’ennesima volta e viene spontaneo immaginare conciliaboli telefonici tra i colleghi dell’uno e dell’altro nosocomio. Dopo qualche giorno, con sorpresa e contrarietà di tutti, si parla di dimetterlo. Ci si comincia ad attivare per un ricovero all’Hesperia Hospital, ma quando i primi contatti giungono all’orecchio del primario, questi convoca i figli e chiede loro di soprassedere: sarebbe un’immagine negativa per tutto il reparto, confessa e assicura che faranno del loro meglio. L’idea che i suoi cari accarezzano sarebbe quella di ritentare, appena possibile, un’indagine cistoscopica e richiudere l’ipotizzata maledetta fistola; ma occorre che Luigi si riprenda e che l’esame sia condotto in condizione di sicurezza. La porta finestra della stanza del vecchio edificio sbocca in un terrazzino, dal quale si vedono la Ghirlandina, i tetti delle case del centro storico, punteggiati da altane che spuntano qua e là: quella parte della città, risparmiata dagli orrori delle costruzioni moderne, animata da porticati ad arco, vecchi portoni, pittoresche insegne di antiche botteghe artigianali, che Luigi ama particolarmente. Quante volte quei muri umidi e scoloriti hanno rifratto l’eco dei freni della sua “Bianchi”, quando appoggiava la bicicletta in un angolo e passava in rassegna le vetrine di vecchie e polverose librerie o di modesti antiquari! In linea d’aria si è a qualche centinaio di metri dal vecchio complesso universitario di Sant’Eufemia. In quel terrazzino si troveranno per giorni e giorni a parlare, sperare, disperare, Adolfo, Pippo e gli amici che vengono a trovarlo. Il cinque giugno occorre attivarsi per un certificato medico: è giunta infatti, imperiosa, la convocazione per l’udienza del giudizio di appello relativo alla querela di Pisa. Shylock pretende la sua libbra di carne.
Quotidianamente gli fanno visita gli esponenti dell’Aian, gli amici più stretti, tra i quali Gianni Cuoghi e Giovanni De Carlo, mentre Minuscoli, che ha avuto un grave incidente di macchina, telefona giornalmente a Pippo e ad Adolfo per avere notizie. Lui si lamenta anche per il dolore provocatogli dagli aghi delle flebo, dato che le vene tengono male e di frequente occorre fare diversi tentativi.
La stanza è rinfrescata da un condizionatore, ma il mese di giugno di quest’anno è veramente torrido, con temperature agostane. Il tentativo di compiere l’indagine alla vescica si infrange contro l’indisponibilità dell’urologo, che evidentemente non si vuole assumere responsabilità; d’altra parte si è fermata quella ripresa che sembrava voler sorprendere tutti ancora una volta. Una mattina chiede quando potrà tornare a casa: Adolfo risponde parlando vagamente di indagini ancora da espletare. Lui abbassa il capo, tace, capisce. Non replicherà più la richiesta.
Domenica 9 giugno, di tardo pomeriggio, sono attorno a lui Pippo, Adolfo, e gli amici dell’Aian. Sembra sereno, è felice di vedere i suoi figli ai lati del letto e parla volentieri. Ad un tratto, dopo averli fissati con indicibile tenerezza, tenendo loro le mani dice:
“Non muoio completamente, perché quello che ho fatto continuerà ed io continuerò in voi figli. Sono stato fortunato, non so se meritavo due figli come voi. La questione della mia cura è troppo pesante per le vostre spalle. Si accorgeranno di quello che gli ho combinato, se ne accorgeranno! Copieranno la mia terapia, cambiando ora il nome di un farmaco ora di un altro, ma ricordatevi quello che vi dico: vogliano o non vogliano, prima o poi dovranno sbattere il muso sulla faccia del sottoscritto. Non angustiatevi, lavorate serenamente, perché questo avverrà. Ma ci vorrà ancora tempo”
E, dopo un attimo, fissandoli con gli occhi lucidi: “vi benedico”.
Qualche giorno dopo le condizioni declinano sensibilmente e lui parla sempre più di rado: appena qualche parola e non sempre comprensibile. Si riesce solo a dargli pochi bocconi di cibo e qualche sorsata di succo di frutta. E’ assai dimagrito ed i calcagni sono arrossati per la posizione supina. Adolfo arricchisce di retinoidi una crema, riuscendo a dare un po’ di refrigerio alle gambe ed ai piedi. Compare anche la febbre, che tende a farsi costante e con punte relativamente elevate. Con una fiala di gammaglobulina si riesce a placarla, ma Luigi risponde ormai quasi esclusivamente con cenni. Si manifestano anche apnee abbastanza prolungate ed occorre somministrargli molto spesso ossigeno. La sera c’è sempre la fida Concetta che arriva per assisterlo durante la notte e sorvegliare che tutto proceda regolarmente. Lunedì mattina, mentre Adolfo sta per mettersi in macchina, è proprio Concetta a telefonargli: avvicina il cellulare alle labbra dello scienziato, e consente al figlio di ascoltare la sua voce, mentre saluta Carlo Brusiani, venuto a fargli visita: “grazie Carlo, grazie…”. Questi, solitamente imperturbabile, piange in silenzio, in un angolo della stanza. Quando Adolfo arriva e gli dice “papà ciao, sono Adolfo”, lui risponde “ho capito, ti ho riconosciuto”; “ti voglio tanto bene papà”; e lui “anch’io te ne voglio”.
Presto giungono anche dolori, che gli contraggono a volte i tratti del viso. Si cerca di non ricorrere disinvoltamente – come viene proposto – alla morfina, data l’inevitabile depressione sul respiro. Il 17 giugno si lamenta per dolori addominali, ma anche alle braccia, che sono gonfie: è ormai estremamente difficoltoso praticare flebo e si procede ad un consulto per valutare un innesto sulla giugulare, ma tutti i medici consultati fanno rilevare l’elevato rischio connesso e, a parte questo, sono scettici sulla opportunità di ricorrervi. Il 21, il giorno del suo onomastico, dopo un ultimo tentativo occorre arrendersi. E’ la fine di ogni pur flebile speranza. Ormai è inerte, non si alimenta ed è possibile assicurare un minimo di idratazione facendogli gocciolare un po’ d’acqua in bocca. Adolfo, raggiunto il pomeriggio dei giorni lavorativi da Maria Letizia, può solo tenergli la mano, accarezzargli il viso e altrettanto Pippo, che giunge la sera quando termina le visite nel suo studio di Bologna. Non si sa più per cosa pregare: la ragione esclude possibilità concrete di ripresa e solo un miracolo, un vero miracolo potrebbe cambiare la situazione. Annichiliti dal dolore, si finisce per accontentarsi di vederlo ancora respirare, di sentire al tatto il calore della sua mano, di rimandare, giorno per giorno, un pensiero che non si osa nemmeno formulare. Il 26, dopo qualche giorno di pausa, torna la febbre, di nuovo azzerata con altra gammaglobulina. Il 27 viene a fargli visita il Sindaco, Giuliano Barbolini: rimane silenzioso a vederlo col capo reclinato, esanime, dimagrito. Qualche sera prima è venuta anche Maria Tosi da Mantova con il figliolo. E’ affranta. Parlando con Adolfo ricorda quando, ventotto anni prima, era andata a trovare Luigi agli Istituti Biologici, con la flebile speranza che potesse donarle qualche mese di vita in più, dato che le avevano preannunciato ben poco tempo da vivere, con la sua leucemia mieloide recidivata (la testimonianza della Sig.ra Tosi è possibile vederla in Maria, Leucemia Mieloide Acuta, n.d.r.).
Lunedì 30 giugno il respiro si fa corto, e poiché si percepisce un suo lamento flebile ed alterno, è indispensabile iniettare morfina. Le gambe sono smagrite in misura impressionante ed il viso sta sempre reclinato sulla destra, con un occhio semichiuso.
Il giorno dopo, martedì 1 luglio, la giornata si presenta serena, limpida e senza foschie, con una temperatura equilibrata. Concetta ha già telefonato di prima mattina: sembra tutto come al solito, a parte la diuresi che è cessata. Per il resto nessuna novità: solito torpore, stato di incoscienza, respiro appena percepibile con episodi di apnea. Adolfo arriva poco prima delle dieci, bacia il padre, gli si siede accanto.
E’ appena risuonato il rintocco delle campane del Duomo quando nota – avendo fisso lo sguardo sul petto – che questo ha cessato di sollevarsi per l’inspirazione. Gli mette le mani sullo sterno, lo comprime a tratti, in un goffo tentativo di rianimazione, ma il petto si risolleva per un istante e poi ricade. Sono le dieci e quattro minuti del mattino. Fuori, il sole illumina in diagonale il terrazzino, alcuni passerotti indugiano sul cornicione per tuffarsi d’un subito nell’aria e abbandonarsi al volo, liberati dal greve del loro corpicino. La croce dorata in cima alla Ghirlandina scintilla sullo sfondo di un cielo terso e azzurro. Adolfo singhiozza tenendogli la mano ancora calda. Accanto a lui Maria Letizia. Pippo sta partendo da Bologna.
I medici accorrono, auscultano, ma l’unico segno, a stento udibile, è il ritmico funzionamento del pacemaker. I presenti si inginocchiano come ad un tacito comando, fissando la fronte possente, senza una ruga, le braccia martoriate dagli aghi, il corpo ormai minuto rilevato dal lenzuolo.
Pippo arriva, entra nella camera, sosta affranto davanti al letto, il numero sette. Dopo pochi minuti, uno stuolo di giornalisti, di obiettivi di telecamere. Adolfo con un gesto fa comprendere che non intende parlare. Pippo si fa forza, riesce a dire poche parole e poi scoppia a piangere. Presto la salma viene composta, avvolta in un lenzuolo e portata nella camere ardenti del vecchio ospedale civile. Già di primo pomeriggio un’interminabile, muta fila sosta davanti alla camera ardente, mentre la notizia corre di bocca in bocca e viene diffusa dai notiziari. L’indomani mattina la folla composta attende, mentre gli amici entrano a turno e fissano smarriti il corpo dello scienziato. Prima che la bara sia chiusa, l’ultima incombenza, lasciata ad Adolfo: “fammi fare iniezioni di aldeide formica. Con quella, se uno non è morto, muore di sicuro”.
Quando la bara esce portata a spalla dagli amici, scoppia un applauso interminabile. Il corteo, preceduto da un servizio di vigili urbani in motocicletta disposto dal Sindaco, percorre la strada del Fondovalle che per anni, ogni domenica mattina, ha visto la sua macchina salire verso Fanano. La funzione religiosa nel Duomo del paese e poi la bara che racchiude le spoglie del Poeta della Scienza scompare nel buio della tomba, di fronte ad un panorama di montagne che si alternano e susseguono.
Giungono migliaia di telegrammi, alcuni in via Marianini, altri a Bologna, allo studio di Pippo: personaggi famosi che in questa circostanza si firmano, alti rappresentanti dello Stato, pazienti, amici, semplici cittadini. Giunge, indirizzato ai figli, anche quello di un altro poeta:
“Vi sono molto vicino in questo momento di dolore per la scomparsa del caro Luigi, persona di cui ho sempre ammirato il valore, la professionalità, la dedizione al lavoro e la tenacia dimostrata nel continuare sempre con coraggio la sua missione, pur dovendo superare ostacoli e vie impervie. Il mondo della medicina perde un personaggio unico che per me sarà sempre il vero ed unico vincitore del premio Nobel. – Luciano Pavarotti”
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Una brezza lambisce la menta di Marianini, rade la scrivania, s’attarda su una poltrona vuota. Percorre anche le vie scure di Linguaglossa fino alle porte della Matrice, muove le palme della piazza, castagni e fichi d’India che nelle campagne bevono la luce del sole, per sfiorare poi il viso di un bambino che nessuno vede, i grandi occhi di ciliegia, il mento forte, piccolo pomo sotto le labbra. ‘A muntagna, possente, la cima baciata dal cielo, sembra un leone accovacciato, espira immobile un filo bianco, vede, senza guardarlo, il piccolo mondo degli uomini, mentre le quiete onde del mare, madri e figlie di se stesse, sciolgono presente e passato sull’arena in un sussurro di pace e beatitudine.
Lo Jonio. Che nei pomeriggi assolati fiammeggia di un blu assoluto, invade ed inebria l’animo: quel blu, adulto dell’adolescente azzurro, che è colore e suono e profumo, che appaga lo spirito perché lo riempie e lo riempie perché l’appaga.
1 Gazzetta di Modena, 11/2/2006: “Tumore alla gamba, ora gioca a calcio”.
2 Mons. Giuseppe Scarcella sarebbe scomparso, quasi centenario, nell’aprile 2013.
3 Articolo di Gianna Venturini, America Oggi, giovedì 17/6/99.
4 Il Giornale, 18/6/99, pag. 16: “La prevenzione può farci vivere anche 120 anni”, di Gabriele Villa.
5 Lettera 10/4/1999, prot. 100/696-3.13/3583* “Ulteriori trattamenti con farmaci MDB. Risorse dedicate all’acquisto”.
6 Un medico, che sarebbe assurto molti anni dopo ad una certa notorietà col suo ingresso in politica, aveva fondato un’associazione – “Associacão Di Bella Uma Vida pela vida” – a Rio de Janeiro. Il Prof. Di Bella, con lettera del 16/9/99, avvisava che “…deve intendersi revocata ogni e qualsiasi carica risultasse evidenziata a mio nome presso la vostra associazione”.
7 Di Bella et al.: “Further clinical and experimental data on platelet production by melatonin (MLT)”; “Megakayocite membrane patch-clamp outward current after retinoid application”.
8 Tutte le conferenze tenute dallo scienziato sono state registrate ed è in programma (o è già stata fatta) la loro sbobinatura, propedeutica ad una successiva pubblicazione.
9 Todisco M, Casaccia P, Rossi N. – Cyclophosphamide plus somatostatin, bromocriptin, retinoids, melatonin and ACTH in the treatment of low-grade non-Hodgkin`s lymphomas at advanced stage: results of a phase II trial. Cancer Biotherapy& Radiopharmaceuticals 2001 Apr;16(2):171-7. La pubblicazione è riportata di seguito e liberamente scaricabile in formato pdf.
10 La querela contro l’oncologo Umberto Tirelli, nell’imminenza della sentenza, che appare plausibile sarebbe stata di condanna, è stata rimessa da Adolfo e Giuseppe Di Bella in ossequio alle ultime volontà del padre, ispirate al perdono di quanti lo avevano offeso o gli avevano fatto del male.
11 Di Bella L., C. Bruschi and L. Gualano – Melatonin carries important effects on megakaryocyte membrane patch-clamp outward current. Proc. XXXIV International Congress of Physiological Sciences, Christchurch-New Zealand, 26th August 2001.
12 Qualche anno dopo, gli esponenti dell’associazione, la dottoressa ed il farmacista in rapporto di collaborazione saranno rinviati a giudizio per gravi reati dalla Procura di Bari. Una eloquente testimonianza sui comportamenti del medico in questione si trova nel libro di Maria Grazia Mancarella: “Il Professore della speranza – Come Luigi Di Bella mi ha salvata”, Edizioni Artestampa, Modena, luglio 2008.
13 Luigi Di Bella, Carla Bruschi, Luciano Gualano – Melatonin effects on megakaryocyte membrane pach-clamp outward K+ current. Medical Science Monitor, 2002; 8(12): BR527-531.
14 Il libro sarà scritto da Giuseppe Di Bella e pubblicato due anni dopo la scomparsa dello scienziato: Il Metodo Di Bella, Mattioli Editore, Ia ed. 2005. Il commento virgolettato fu fatto dallo scienziato dopo la lettura della bozza di un libro sul Metodo, scritto da un medico romano.
15 Da “Il Resto del Carlino”, 21/1/2003.
16 “Il Resto del Carlino”, cronaca di Modena, pag. VII, 25/1/2003.
17 Sentiamo il dovere di precisare che le espressioni usate, per quanto ci sembrino fedeli a quanto detto dallo scienziato, sono frutto del nostro ricordo.