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Capitolo VI – Quattro cuori e una capanna
“La famiglia è la patria del cuore” (Giuseppe Mazzini)
Quando G. viene a sapere di Marianini e delle apparecchiature di cui ora Luigi dispone, capisce che lo può tormentare, ma non annichilire. In ultima analisi, lui ed il mondo che rappresenta hanno perso la battaglia. La sua ritorsione non si fa attendere: gli impedisce, di fatto, di pubblicare lavori su riviste scientifiche, lo sottopone ad una corvèe di prepotenze continue ed inizia una campagna di calunnie e diffamazioni che incontrerà sì alcune reazioni indignate, ma prevalentemente indifferenza o terreno fertile nel meschino ambiente medico e accademico modenese. Ambiente che – come già anticipato – mostrerà poi una singolare coerenza ricorrendo a lui per sfruttarlo più o meno riservatamente, più o meno ignobilmente, estorcendogli lavori da presentare in concorsi ed in congressi. In una parola: sanno tutti chi è – per meglio dire, lo avvertono istintivamente e loro malgrado – ma nessuno o quasi viene meno alla consegna di complice omertà. D’altronde la maldicenza appare loro l’unica strada praticabile, visto che gli studenti lo adorano, lo considerano un mito vivente, lo idolatrano e corrono alle sue lezioni, anche si trattasse di rimanere in piedi, o accovacciati per terra, o pressati da altri dietro la porta semichiusa dell’aula: e questo si verifica in tutta l’università ed a prescindere dalle facoltà solo quando parla il Prof. Luigi Di Bella. Chi vuole imparare e capire sa che non esiste altro mezzo. E’ poi inevitabile che gli stessi studenti che affollano lezioni ed esercitazioni dello scienziato provino disprezzo e sbigottimento avendo successivamente a che fare con G., che, per illegittima difesa, non arretra di fronte ad alcuna bassezza nel vano tentativo di infangarlo, così da giustificare le evidenti e notorie vessazioni con le quali lo tormenta.
Tanto per cominciare, lo confina in una stanzetta nell’ala estrema dell’istituto, l’ultima prima dell’aula dove si tengono lezioni ed esercitazioni: un’aula grande, luminosa, lussuosa, arredata con poltroncine laminate in formica e un’immensa cattedra pullulante di interruttori che attivano luci e lavagne a movimento elettrico. Mancando la sostanza, non rimane che un’opulenta apparenza. S’intende che di stanze ce ne sono quante se ne vogliono, ampie, luminose, inutilizzate, o meglio, destinate ad ospitare apparecchiature nuove di zecca acquistate con i fondi universitari a prezzo di listino e senza una lira di sconto; o almeno così sembrerebbe. Dormiranno di sonno ininterrotto – sotto una coltre di polvere, sempre che vengano estratte dall’imballaggio – fino all’obsolescenza ed all’inevitabile rottamazione. Neanche a parlarne, che Luigi possa utilizzarle. Lui deve vivere in un ambiente di pochi metri quadrati, dove tutto è ammassato e nel quale risulta difficile muoversi; in compenso il volume della stanzetta è più ampio, grazie ad un’altissima volta a sesto acuto che dà quasi le vertigini a fissarla, perpetuamente ricamata di ragnatele, e le imposte sono di modello unico e personalizzato, fatte di listelli di legno marcio sui quali è inchiodato cartone raggrinzito. L’avara superficie della cella è disputata da una mensola piastrellata di bianco, un lavandino, un tavolo sgangherato, una scrivania e due librerie che, avessero sembianze umane, sarebbero paonazze per il sovraccarico di volumi e …la vergogna. Dalla finestra, chiusa da persiane che un tempo erano state azzurrognole, si vede il giardino interno, triste, desolato, quasi sinistro quando, di sera, s’infrange tra le siepi di tasso l’eco delle campane della Ghirlandina che scandiscono le ore; illuminato di luce fioca, ogni tanto e per un minuto soltanto, se qualche ritardatario lo attraversa lesto per tornare a casa. Lì dovrà vivere per altri quattordici anni. Ovviamente di telefono neanche a parlarne: ci sono due apparecchi nell’ala direttoriale, un terzo nella stanza dei bidelli, prossima all’ingresso ed un altro nella stanza dove alloggia un assistente di chimica, il dottor Cennamo. Viene anche istruito un bidello con pochi scrupoli e, si dice, depravato, perché sorvegli Luigi, specie quando riceve qualcuno nei suoi “alloggi”. Spesso si sente uno scalpiccio e aprendo la porta all’improvviso lo si può sorprendere mentre finge goffamente di dirigersi all’ingresso dell’aula. Girarrosto invece entra d’imperio, senza bussare, con una gran manata sulla maniglia della porta: ricorda uno dei satrapi flaccidi e obesi che popolano le pagine di Salambò. Qualche volta però anche la pazienza del pazientissimo recluso ha termine e l’aguzzino, intuìto dall’accoglienza che rischierebbe qualche lunga e verace indisposizione, torna rapido, trafelato e pallido nella sua ala lussuosamente arredata all’altro capo dell’istituto. L’unica volta, poi, che tenterà di assemblare un simulacro di lavoro – collage di nozioni maldestramente scopiazzate – e glielo sottoporrà, si sentirà apostrofare con un: “ma non ti vergogni?”. Tra le poche persone degne, il tecnico, Berto Simonini, che quando può se ne sta a lavorare nell’officina al piano terra ed il bidello anziano, Tavani, la cui ingenua bontà sarà sempre apprezzata da Luigi.
Altri sarebbe impazzito o avrebbe commesso uno sproposito. Lui tace, stringe i denti e va avanti: non bisogna offrire pretesti per farsi togliere il pane per i suoi cari. Questo immenso sacrificio lo farà unicamente per amore della sua famiglia che, dirà fino agli ultimi giorni, “è tutto e viene prima di tutto”.
Quando la sera si ritira sfinito a casa, il più delle volte dopo avere soddisfatto la fame con un pezzo di pane e qualche frutto, pensa che quel silenzio sarà sostituito presto dalle voci dei suoi bimbi e di Ciccina: ormai mancano poche settimane ed ha già provveduto ad iscrivere a scuola i figlioli. Finalmente giunge il giorno fatidico. La casa deve essere linda, anzi, brillare e nulla deve mancare: nella dispensa di legno smaltato di bianco e azzurro, sono ben allineati sale e zucchero, bottiglie di olio e aceto, la formaggiera traboccante di parmigiano, pacchi di pasta e caffè, canestri di frutta. Il profumo della cera passata sul parquet della stanza da pranzo e sui marmittoni degli altri ambienti si percepisce non appena aperta la porta di casa. In ogni gesto ha messo tutto il suo struggente desiderio di amore coniugale e familiare e di un porto dove sostare. Gli sembrava, ormai, di dover navigare in eterno tra le tempeste, come per un maleficio, novello Olandese Volante. E’ il nove ottobre e già compaiono al tramonto le prime nebbie, timide ed impacciate come ospiti in anticipo sull’ora convenuta. Tonuccio e Citta hanno accompagnato la sorella e bambini fino a Roma.
Ciccina, Pippo e Adolfo arriveranno di sera, stanchi per il viaggio: meglio evitar loro il disagio di scendere col bagaglio a Bologna e attendere il primo locale per Modena. Ruggero Montanari si offre di andarli a prendere con la sua “Topolino giardinetta”, piccola ma sufficiente ad ospitarli insieme alle valigie grazie al portapacchi sul tettuccio ed al posto che Adolfo lascerà libero raggomitolandosi nel vano bagagli. E’ con una gioia incontenibile che abbraccia i bambini e Ciccina, mentre spia con la coda dell’occhio la sua meraviglia per l’ordine che regna in casa. L’ingresso dei viaggiatori è accompagnato da un’augurale ilarità quando Adolfo fa un formidabile scivolone sul pavimento lucido di cera.
Già il giorno dopo, caricato Pippo sulla canna della bicicletta, si avvia verso Sant’Eufemia: vuole rendersi conto della preparazione del ragazzino e individuare eventuali lacune. Ogni mattina si alza presto, come ormai vecchia abitudine, riempie la vasca con l’acqua bollente delle pentole lasciate sulla piastra della cucina economica e si fa il bagno: lo scroscio servirà a ridestare dal sonno i bambini e dar loro il tempo di rassegnarsi alla giornata di scuola. Accompagna lui Pippo, mentre Adolfo, la cui scuola è ad un centinaio di metri da casa, vi si recherà con la mamma. Lo si vedrà presto, di pomeriggio o la domenica mattina, scendere le scale con la bicicletta sollevata ed i bambini dietro, imbarcare l’equipaggio, darsi la spinta col piede sinistro mentre l’altro poggia già sul pedale, e quindi procedere impettito sulla sua “Maino”, Pippo sulla canna e Adolfo sul manubrio a dividere il poco spazio con un’immancabile borsa gonfia di libri; se poi piovesse, il più piccolo dei Di Bella avrà il privilegio di reggere l’ombrello: un prodigio di equilibrismo. Col freddo, di cappotto neanche a parlarne: abituatosi a farne a meno per motivi economici, l’unico indumento del genere che Ciccina gli regalerà sarà destinato ad essere divorato dalle tarme. Cappello, giacca e gilet, cravatta sottile fissata con un fermaglio, lembi dell’impermeabile assicurati alla cinta per non finire tra i raggi delle ruote, guanti, se del caso calosce e, nei giorni di gelo, fogli di giornale tra il soprabito e la giacca, saranno la sua divisa. Quando è solo, lo si vede sfrecciare come una saetta (i chilometri percorsi sui Peloritani oltre vent’anni prima non sono stati inutili) o al contrario pedalare lentamente, il capo piegato di lato, immerso nei suoi pensieri. Se incontra un conoscente, solleva leggermente il cappello in segno di saluto.
Ora che non è più solo, le angherie che deve sopportare pesano di meno. Il compito di educare i bambini lo aiuta a non pensare ossessivamente al presente ed all’amaro passato: la vita potrebbe essere molto dura verso di loro se non provvederà a fortificarli e proteggerli; chi non si è posto alcun problema morale nel fargli tanto male, non avrebbe alcuno scrupolo nel farlo anche alle sue creature. La famiglia d’origine ha gravato sulle sue spalle, anziché aiutarlo, ma forse, un giorno, potrà realizzarsi il sogno di lavorare insieme a quei bimbi divenuti uomini, senza doversi aspettare inganni, delusioni e tradimenti: una comunione di affetti e di intenti cementata dalla comune passione per il sapere ed i misteri del creato. Il laboratorio che ha realizzato con tanti sacrifici potrebbe vedere al lavoro un gruppo di scienziati che portano lo stesso cognome. Sarebbe meraviglioso – sogna – poter travasare in loro lo stesso ardore per la conoscenza ed il lavoro sperimentale, avere accanto un biologo e un chimico che lo chiamano papà, lavorare insieme, tre Di Bella, d’amore e d’accordo, senza le amare sorprese che derivano dall’impossibilità di penetrare nell’animo altrui. Ma prima di pensare a questo, occorre formarli e far conseguire loro la sicurezza dell’indipendenza economica.
Per il momento bisognerà continuare a piegar la schiena, sobbarcarsi lezioni ed esercitazioni per chi non le vuol fare, scrivere lavori per altri, tacere quando invece si vorrebbe esplodere, sopportare la maldicenza, tollerare di essere spiato in ogni gesto ed in ogni parola. No, non si tratta di mania di persecuzione, ma della cruda e lampante realtà giornaliera. Tutti sono al corrente dello scandalo e delle disonestà: nella facoltà di medicina, in quella di scienze biologiche e di chimica, nel rettorato, nell’intera università, ma la cosa importa poco; anzi, non se ne deve proprio parlare: un classico, se si conoscono la bassezza ed il gesuitismo degli ambienti accademici.
Pippo frequenta la terza media, Adolfo la seconda elementare. Luigi li porta con sé in istituto, li segue negli studi, cerca di accendere in loro l’amore per il sapere e spingerli a chiedersi sempre la ragione delle cose e, in particolare, delle regole. Se finiscono i compiti assegnati, a volte ne aggiunge altri lui, o li abitua alla lettura. Dai criteri che adotta e dai suggerimenti profusi nel seguirli, emergono elementi che aiutano a comprendere il suo sistema di studio e l’autodisciplina che gli hanno permesso di apprendere in modo così straordinario. Ogni briciola di tempo deve essere impiegata con una metodica intonata alla razionalità più sistematica. Termini ostici da ricordare sono annotati con cura, pronti ad essere riletti e ripetuti ad ogni occasione. Se nei testi letti compaiono vocaboli rari, li sottolinea e consulta il vocabolario alla ricerca del significato preciso, della sfumatura espressiva che sottendono. E’ così rapido il pensiero, così composito, tanto sottile e pregno di evocazioni, che solo diventando padroni degli strumenti espressivi si riesce a comunicarlo agli altri. Il dantesco “a nulla val senza lo ritener l’aver appreso” diventa una guida costante nello studio: che senso ha leggere se poi si dimentica quel che si è letto? Lo studio serve ad incrementare il patrimonio della propria mente e uno dei segreti per ritenere e mettere a frutto ciò che si è appreso, è abituarsi a correlare incessantemente. L’unico sapere che vale è quello che aiuta a capire e orientarsi. D’altronde detesta l’erudizione fine a se stessa, strumento di tronfi esibizionismi. La sua aspirazione è trasfondere in Pippo e Adolfo quanto gli hanno insegnato i sacrifici fatti, evitare che cadano nei tanti tranelli della logica umana, consentir loro di sfuggire ad inganni ed autoinganni, rendersi autonomi nel giudizio di uomini ed eventi e, soprattutto, formare il loro carattere, facendone uomini veri, forti, abituarli a lottare senza arrendersi mai. La via della rovina è l’essere indulgenti con se stessi, “volersi troppo bene”; si può sempre dare di più, molto più di quanto si creda e ciò che si realizza nella vita è per metà frutto di doti innate, per l’altra metà di fatica, costanza e sacrificio. Se si ha sonno ci si alza in piedi, se la mente sembra non più recettiva, si prende una boccata d’aria; ma soprattutto occorre fare l’abitudine alla stanchezza, all’indolenzimento apparentemente insostenibile del corpo, non sentire le sirene del riposo e dello svago, perché non c’è altro modo, se non si vuole vivere passivamente, che comandare a se stessi: la cosa più difficile in assoluto. Ci “si vuole bene”, un bene immenso, cieco, passionale, quasi esclusivo, senza rendersi conto che questo supposto bene è rivolto unicamente alla parte meno nobile dell’entità uomo, al suo aspetto fisico e vegetativo, che viene così reso da servo a padrone dell’individuo. Come non condividere una impostazione siffatta? L’attuale organizzazione persuasoria sulla quale poggia l’invasivo mondo contemporaneo sfrutta proprio questa umana debolezza per opprimere gli intelletti e sopprimere l’individuo, il nemico più pericoloso della massificazione di comodo. L’unica speranza poggia quindi sulla capacità individuale di giudizio e di valutazione critica. Se è profondamente vero il celebre “per aspera ad astra”, lo è anche l’inedito “per facilia ad infera”. Questi princìpi coinvolgono anche il pedagogo: ad essi Luigi impronterà sempre la sua azione educativa nei confronti dei figli, rimproverando loro i facili abbattimenti, il fermarsi di fronte alle difficoltà, l’autocompatimento, oggi così diffusi tra le nuove generazioni ed esaltando per converso forza d’animo, capacità di sopportazione, coraggio. Se, da una parte, apprezza ed esalta la sensibilità e la finezza d’intuito della mentalità femminile, dall’altra insiste su un concetto di uomo, di “vir”, che addita ai figli quale esempio da seguire in ogni circostanza della vita. “Non è da uomini mentire”, “non è da uomini piagnucolare”, “non è da uomini arrendersi”, sono frasi che ricorrono in ogni circostanza difficile, dalle questioni di studio a quelle della vita; salvo poi, nelle circostanze più drammatiche, aprire la sua trattenuta tenerezza in un grande abbraccio paterno prima di incitare alla forza d’animo.
Nei lunghi pomeriggi passati nella minuscola stanzetta i due fratelli vedono il padre studiare chino, senza interrompersi altro che per tenere lezioni ed esercitazioni, occuparsi dei loro compiti o preparare l’immancabile caffè. Deve pur recuperare il tempo sottrattogli, spesso ad arte, allo studio ed alla ricerca ed occorrerà rimanere sveglio fino a tardi. Ha l’abitudine di sottolineare i libri con biro colorate in rosso, verde e nero e di servirsi di qualsiasi pezzo di carta – dalle buste rivoltate ai fogli di pubblicità di medicinali – per annotare osservazioni e richiami con la sua calligrafia minuta, chiara, regolare. A questa diligenza non è mai disgiunto però l’amore per il bello, che è sempre presente, occhieggia in ogni gesto ed occasione, intride la sua vita. Rimane incantato dalle riproduzioni di capolavori pittorici a volte riportati su riviste e periodici o più modestamente riprodotti sulle scatole dei cerini e li ritaglia con cura, li usa come segnalibro, mai sazio di guardarli; e lo stesso fa con cartoline di località panoramiche che gli vengono recapitate. Fuma molto, almeno due pacchetti di sigarette al giorno: “Nazionali senza filtro”, le più economiche, in pacchetti verdini sui quali è stampigliata una caravella nera e che si vendono anche sciolte presso i tabaccai; o che si fa da solo arrotolando il tabacco in sottili cartine.
Il trascorrere parte delle giornate con i figli accanto lo aiuta a superare dispiaceri e prepotenze continue e talvolta fa emergere il mai sopito ed acuto senso dell’umorismo. Una sera, mentre si è allontanato per qualche minuto, Pippo convince Adolfo ad aspirare la sigaretta che il padre ha lasciato accesa e accostata all’orlo del portacenere: quando lo scienziato rientra e vede il figlio più piccolo tossire con le lacrime agli occhi, non riesce ad assumere nemmeno la parvenza di un’aria di rimprovero, ma scoppia in una risata; poco tempo dopo, una domenica mattina, insieme ad Adolfo in cerca di rivalsa è scosso dal riso mentre guarda dalla finestra Pippo che, in cortile, i pattini a rotelle ai piedi, passa più tempo a rialzarsi dalle cadute che a schettinare. Altrettanto avviene un giorno piovoso, quando compra ad Adolfo un paio di scarpe, che il bambino indossa subito. Le scarpe hanno la suola estremamente liscia ed il bambino sembra camminare come sul ghiaccio, mulina coi piedi e non riesce a rimanere dritto che per qualche manciata di secondi, evitando di ruzzolare solo grazie al padre che lo sostiene con la mano. Quando questi, all’ingresso generale degli istituti di S. Eufemia, lo lascia, Adolfo si esibisce in un finale ed acrobatico scivolone: Luigi, ridendo fino alle lacrime, stenta a consolarlo mentre salgono le scale.
La situazione economica non si può definire brillante, ma va gradualmente appianandosi. D’altra parte le esigenze familiari e individuali del periodo non sono certo quelle, in gran parte artificiose, di cinquant’anni dopo, e nulla di indispensabile o utile manca alla famiglia. Certo, oggi si storcerebbe il naso di fronte ad abitudini di vita che sarebbero lette come rinunce o privazioni, ma quel che conta è solo ciò che viene percepito, provoca vera felicità o infelicità e incide sulle possibilità dell’individuo di raggiungere le proprie mete migliorando se stesso.
All’inizio, il riscaldamento della casa è affidato unicamente alla cucina economica. Nelle serate d’inverno è ovviamente impensabile andare a dormire senza una borsa d’acqua calda tra i piedi, pigiamoni spessi di lana e, quando la temperatura è prossima allo zero, il “prete”, trabiccolo di legno che ospita un braciere, posizionato per tempo sotto le coperte ad intiepidire lenzuola e materassi. Peraltro il problema non si pone per i bambini, visto che dormono nel tinello, dove, caricando a dovere la stufa di mattonelle di antracite si gode del tepore fino al mattino successivo: i loro letti consistono in due bauli di legno sui quali sono stati collocati i materassi. Le maggiori esigenze sorte col riunirsi della famiglia, vengono fronteggiate dal lavoro supplementare del quale lo scienziato si è caricato: un lavoro che lo porta a sacrifici che altri non sarebbe riuscito a sopportare e che trae origine dalle sue stesse capacità superiori. Inizia proprio in quegli anni, sistematico e crescente, un pellegrinaggio discreto ma accanito di papaveri e luminari di ogni risma, per lo più parassiti senza limiti e senza dignità. Formalmente si tratta di “collaborazioni” in lavori e di “consulenze”; in termini meno aulici, di scrivere dalla a alla zeta interi lavori, dato che il più delle volte gli abbozzi degli opachi luminari non meritano nemmeno il cestino nel quale finiscono e sono talmente malfatti che si impiegherebbe molto più tempo a correggerli che a scriverli ex novo. C’è chi si avvicina con fare impositivo, senza ottener nulla; chi minimizza l’entità del favore richiesto per non sentirsi troppo diminuito di rango; e chi, invece, avverte istintivamente, quasi controvoglia, la superiorità dell’uomo e, pur badando alle proprie esigenze, prova per lui sentimenti inediti, a volte persino di amicizia. Nella maggioranza dei casi il “ritorno” consiste (e a volte nemmeno questo) nella rifusione delle spese – reagenti ed animali da esperimento – sostenute per l’attività svolta in Marianini, accompagnate da calorose strette di mano; c’è chi si disobbliga – nonostante Luigi provi ribrezzo a chiedere qualsiasi cosa – acquistando qualche strumento utile per il laboratorio o con somme modeste, comunque preziose per tirare avanti. “Sono stato costretto a vendere la mia testa”, sbotterà negli anni della notorietà. In realtà non si tratta di “vendere”: se l’interessato si disobbliga bene; altrimenti fa lo stesso. Dalla sua bocca, finché avrà vita, non uscirà mai una richiesta.
Nel 1954 riesce a comprare una “Lambretta” usata, in sostituzione del “Mosquito” avuto da Recordati e che anni prima era stato costretto a vendere. Il piccolo circo su due ruote – Adolfo in piedi davanti a lui e Pippo nel seggiolino posteriore, accanto a borse varie alloggiate nel portapacchi – si ripete (ad esempio si può visionare un breve filmato nel Documentario Metodo Di Bella – 20 anni dopo (1997-2017) 1 di preciso nel video – nel nome il link alla piattaforma Vimeo dove il video è ospitato e il punto esatto dal minuto 5’30” fino al minuto 6’55” – Metodo Di Bella – 20 anni dopo ( 1997 – 2017) Testimonianze (1 parte) ).
Fino a quando, una sera d’autunno nella quale aveva portato con sé Adolfo, sbanda sull’asfalto reso viscido dalla pioggia e probabilmente da qualche macchia d’olio: lui si rialza illeso, ma il bambino si procura una ferita al sopracciglio sinistro e perde i sensi. Il padre angosciato lo porta sulle braccia in un vicino casolare, dove gli offrono vino per disinfettare la parte, ed esamina ogni sua reazione quando rinviene. Al ritorno a casa, dopo che Adolfo è ripreso, Ciccina dà sfogo alla sua trepidazione di madre con una lunga paternale, che Luigi ascolta umiliato a capo chino: d’ora in poi la lambretta l’adopererà solo lui, se proprio non vuole rinunciarci. In realtà le cose non andranno proprio così: con i bambini a bordo sarà particolarmente prudente, ma non per questo rinuncerà alle due ruote. Con Pippo arriva anche ad andare a trovare Pompeo a San Miniato, dove l’amico passa una parte dell’estate, e tornare in giornata. L’amata lambretta cadrà in disuso solo dopo un incidente nel quale si frattura un piede: s’intende che di ospedale non se ne parla nemmeno alla lontana. Si applica una stretta fasciatura e cammina con un bastone. Al mattino, dopo il bagno rituale – si sostiene sulla spalla di Adolfo, mentre entra nella vasca – si può andare benissimo in istituto con la bicicletta girando il pedale con un piede solo ed il bastone che pende dal manubrio.
In quel periodo a Marianini il corredo di apparecchiature presenti è ormai di tutto rispetto e consentirebbe una certa autonomia nella ricerca, se fosse disponibile un pur modesto “staff” di collaboratori.
Chiunque al suo posto si arrenderebbe di fronte all’evidente ed assoluta impossibilità di lavorare: ambiente medico-accademico in gran parte ostile, clima di oppressione e prepotenze all’interno dell’istituto, tempo sottrattogli dalle sistematiche “sostituzioni” di G., mancanza di risorse economiche. Ci interessa poco che quanto ci apprestiamo a dire possa venire giudicato retorico o affetto da romanticherie, ma la vita di Luigi Di Bella sembra dimostrare l’esistenza di un misterioso finalismo nell’esistenza dei grandi uomini. Più volte lo scienziato dirà ai figli: “non so se sarei arrivato dove sono arrivato senza le difficoltà e le sofferenze che mi sono toccate”. E’ difficile o impossibile fare ipotesi, specie quando ci si riferisce ad uomini che non sempre nascono in un secolo, ma la nostra convinzione, derivata anche dalla conoscenza diretta dell’uomo, è che nel suo caso troppe e troppo prolungate siano state le meschinità e le malvagità subite. Un Grande si afferma sempre, qualunque sia l’atteggiamento scontatamente ostile della società coeva, che per consolidata mediocrità gli frappone ogni sorta di ostacoli: questi esaltano la maturazione degli uomini di valore, perché apportano sofferenza, e la sofferenza è il concime indispensabile per qualsiasi elevazione umana. Ma nel caso di Luigi Di Bella appare spropositato ed ininterrotto quel tributo che sempre viene chiesto agli uomini superiori per farsi perdonare la propria superiorità; talmente articolato, infido, studiato, costante, da obbligarci a sostituire il termine tributo con un altro: martirio. Se l’infinita e feroce guerra che, dall’inizio del mondo, una brulicante morchia muove contro la rarefatta élite degli ingegni, di solito fortifica quest’ultima, gli eccessi e la inflessibilità di questo odio possono far perdere all’umanità, e per sempre, ulteriori conquiste. Quando si spegne un astro, per l’umanità non si tratta solo di una perdita, ma di un’autentica catastrofe. Più avanti ci soffermeremo ad osservare come il male inferto allo scienziato sia stato fatto, in prima battuta, alla collettività. Non ci stancheremo mai di precisare che non ci muove un intento vendicativo nei confronti dei colpevoli, bensì il dovere morale di dare un contributo, non vorremmo vano, perché simili delitti non si ripetano più.
I figli dello scienziato impareranno presto a conoscere, uno ad uno, quanti ricorrono al padre per i motivi più svariati. Nella maggior parte dei casi questi visitatori giungono di tardo pomeriggio e soprattutto di sera, sia perché Luigi ha concluso l’attività didattica, sia per motivi di discrezione e spesso parlano liberamente di fronte a Pippo e Adolfo. Chissà perché, gli adulti certe volte diventano troppo adulti per ricordare com’erano nell’infanzia e credono che i bambini non capiscano quello che invece capiscono perfettamente. Sottintesi ed ammiccamenti risultano così molto più palesi di quel che si vorrebbe e certe espressioni si imprimono nella memoria dei due fratelli. Espressioni dalle quali emerge l’altissima considerazione in cui sono tenute capacità, cultura e moralità del padre ed il bassissimo posto che nella scala dei valori sociali degli ospiti in questua occupano queste doti: Luigi Di Bella? Un genio, sicuramente. Ma anche un fesso. Insomma: un genio fesso! Nemmeno sospettano che lui sa benissimo cosa pensano e dove vogliono arrivare e che, decifrando ogni singolo gesto ed ogni singola espressione dispiegata nel corso della farsa, prova un disprezzo talmente acuto da trasformarlo istintivamente in compatimento. I bambini assistono anche alle lunghe ed a volte spazientite spiegazioni cui lo scienziato è costretto per fare comprendere agli autori putativi i …loro lavori. C’è chi cerca di capire almeno quel minimo che è indispensabile per sostenere una discussione in sedi congressuali, chi invece rimane silenzioso e con lo sguardo inespressivo da persona che non sa nemmeno di cosa si stia parlando, e chi, con maggiore concretezza, si porta dietro qualche subalterno meno ignorante e più sveglio, destinato a rimaner subalterno perché addetto a capire quello che i superiori non riescono a capire. I pochi che sono affezionati veramente a Luigi, lo raggiungono a tarda ora in via Marianini. Una sera, presente Adolfo, uno di questi siede alla scrivania dello studio con una risma di fogli davanti agli occhi. Luigi detta e lui scrive. Ad un certo punto l’ospite serotino, probabilmente in uno scatto d’orgoglio, si arrischia a chiedere allo scienziato una spiegazione. Cápita male, perché Luigi, spossato, nervoso, di pessimo umore, gli rivolge uno sguardo di traverso e sbotta: “cosa vuoi capire tu: sei un professore universitario. Scrivi e taci, cretino!”. Ovviamente non si trattava di un giudizio generalizzato – era anche lui un professore universitario… – ma di un’esasperata reazione alla demeritocrazia imperante.
Il carisma che diffonde attorno a sé è dimostrato anche dall’eterogeneità dei campi nei quali operano i questuanti: clinici medici, endocrinologi, neurologi, neuropsichiatri, patologi, anatomo-patologi, otorinolaringoiatri, ginecologi, fisiologi, istologi, biologi, biochimici; citando a memoria. Le indiscrezioni e le voci cominciano comunque a circolare, specie quando alcuni beneficati non si rivelano capaci nemmeno di imparare a memoria il sunto del lavoro e di rispondere alle domande più elementari. In questi casi – assicuriamo tutt’altro che infrequenti – o interviene il subalterno di cui s’è detto prima, o si rende indispensabile l’intervento dello stesso autore. Certo, si tratta di figuracce: ma tra il fare scena muta o farfugliare cose insensate, o mostrare a tutti da quale sacco derivi la farina è meglio quest’ultima soluzione. Giustificare l’intervento dello scienziato parlando di consulenza o collaborazione, porterà all’unico risultato che si evitano sghignazzamenti palesi per dover assistere ad ancor più umilianti visi arrossati da risa trattenute ed a spalle sussultanti. Ma anche nel migliore dei casi in ogni caso, anche in diligenza, è segreto di Pulcinella appare chiaro agli uditori più smaliziati che quella non può esser farina di mulini sprovvisti di mole. Così si registrano episodi intrisi di comicità involontaria, quando qualcuno, ingenuamente timoroso che si scopra il vero padre dei lavori presentati, si reca in istituto adottando cautele da agente segreto e poco ci manca si mascheri con parrucca, barba e baffi finti. Però questo sforzo lavorativo disumano presenta anche risvolti positivi, consentendo allo scienziato di disporre di strumenti indispensabili alla ricerca e di approfondire ulteriormente le sue conoscenze in tutti i campi dello scibile scientifico.
Qualche collega, è giusto riconoscerlo, prova una solidarietà genuina verso di lui, disprezzo per tanti colleghi ciechi ed immorali e si adopera come può per aiutarlo. Nasce così un’amicizia con il Prof. Pierluigi Remaggi, primario di otorinolaringoiatria presso il Policlinico di Modena e con il Prof. Paolo Carcò, titolare della cattedra della stessa specialità presso il S. Orsola di Bologna. Con quest’ultimo, in particolare, si stabilirà un duraturo rapporto, oltre che di amicizia, anche di collaborazione2.
Parallela a questa attività, e sempre più impegnativa, quella di medico. Non di rado la domenica pomeriggio suonano al campanello della casa di via Cucchiari persone che chiedono di essere visitate. Luigi, s’intende, non ha mai fatto nulla per attirare i pazienti, ma sono quelli da lui curati che si premurano di fare il suo nome ad amici e conoscenti, specie quando si tratta di patologie orfane di diagnosi o di terapia. La risoluzione di casi solennemente classificati, o decretati quali disperati, non può che aumentare la stizza e l’animosità della nutrita schiera dei clinici sconfessati e in particolare dei tronfi allievi del tronfissimo riferimento cittadino, tanto ricco di erudizione terminologica quanto povero di vera cultura medica. I successi terapeutici di Luigi vengono allora attribuiti al caso, a guarigioni spontanee e si arriva, pur di disconoscere la sua superiorità imbarazzante, ad addossarsi errori diagnostici che pure non di rado ci sono stati: ruglio che anticipa il raglio corale di quarant’anni dopo. Lui, pur disinteressandosi di questi strali comareschi e sentendo a sé estranei propositi di rivalsa, in qualche occasione risponde per le rime, colto dall’indignazione verso offese alla scienza e all’etica medica. Essendo iscritto alla Società Medico Chirurgica di Modena, ha diritto di ricevere gli avvisi delle riunioni e dei convegni in programma. Come d’uso, molti lavori sono scritti per imbottire le proprie credenziali in vista di concorsi o per informare il mondo, in trepida attesa …che si fa ricerca. In genere sono inventati di sana pianta e infarciti di corbellerie e assurdità che se non colte da autori e uditori a causa della loro stessa impreparazione, sono evidenti per lo scienziato. Questi in genere arriva di soppiatto, siede nelle file più arretrate o rimane in piedi, con l’inseparabile cappello poggiato sul sedile contiguo o tra le mani. E’ facile, anche senza volgersi all’indietro, sapere quando fa il suo ingresso: tra il sommesso brusio che si leva qua e là, la voce dei relatori prima tonante, sicura e compiaciuta, glissa, incespica, si fa più flebile, quasi chioccia, mentre il viso impallidisce e si imperla. Quando poi prende la parola, inizia quello che senza enfasi può definirsi il massacro di prammatica. I suoi interventi sono cortesi, quasi dimessi, ma le argomentazioni essenziali, chiarissime, le contestazioni taglienti e circostanziate, gli effetti micidiali. Ad uno ad uno individua ed elenca errori, contraddizioni, assurdità, brogli, chiede quali siano state le procedure ed i criteri adottati, quali gli iter sperimentali. Impossibile replicare: meglio abbassare lo sguardo e congelarsi in un chiassoso ed afflitto silenzio accompagnato da un sorriso di ebete e sforzato sarcasmo, a meno che non si voglia prolungare maldestramente il supplizio con balbettii penosi e tentativi di spiegazione. Certe volte si prova quasi pena per il malcapitato, come se si assistesse ad un incontro sul ring a senso unico con il pugile soccombente incapace di assestare un solo colpo, gli occhi neri, perpetuamente al tappeto, i secondi paralizzati con la spugna in mano e l’arbitro talmente inebetito da non decidersi a interrompere la carneficina. Dopo una serie di epiloghi incresciosi, viene adottata una strategia ad hoc: i sostenitori e gli scherani degli autori che debbono comunicare vengono istruiti perché alzino la mano per intervenire – non importa quanto banali ed oziose possano apparire domande ed osservazioni – dilungandosi il più possibile e sottraendo tempo ed occasioni al fisiologo. Ma l’espediente è troppo plateale per riuscire ad esaurire il tempo a disposizione: prima o poi si dovrà pur vedere quella manuzza micidiale, all’apparenza dimessa come il suo proprietario (…maledetto!…), che rimane sempre alzata. Viene partorita un’altra iniziativa: si allunga qualche banconota ad un bidello dell’istituto di fisiologia (quello incaricato di spiare lo scienziato) perché intercetti gli avvisi delle riunioni e li cestini. Ma anche questo escamotage fallisce: la categoria dei camici bianchi è animata sì da una grande reciproca solidarietà, a condizione che si tratti di occultare le comuni magagne; altrimenti i suoi rappresentanti si esibiscono in inchini, sorrisi e complimenti, ma con una mano perpetuamente dietro la schiena, pronta a sferrare una martellata sulla testa del vicino al momento giusto. Di conseguenza Luigi viene sistematicamente avvertito delle strategie accennate e addirittura informato dei soldi corrisposti al bidello sorvegliante: ci sono colleghi che rinuncerebbero ad una prima teatrale con ingresso omaggio nel palco reale pur di non perdersi lo spettacolo. Le riunioni della medico chirurgica diventano così insolitamente affollate, ed accadono fatti curiosi: quando il moderatore, finito l’intervento dei relatori, si rivolge all’uditorio per chiedere se ci sono domande, alla vista dell’ormai leggendaria mano levata molte altre si abbassano repentinamente, obbedendo quasi ad un tacito comando e l’inevitabile supplizio di San Bartolomeo inizia. L’imbarazzo e lo sconforto sono grandi, specie nella corte di un rinomato clinico, anche perché le figuracce originano battute salaci ed hanno da tempo valicato i confini cittadini. Fallite tutte le manovre diversive od ostative, non rimane che tentare di minimizzare e squalificare il responsabile delle loro inquietudini. Luigi Di Bella viene denominato “il teorico”, dando a questo termine, ovviamente, un significato spregiativo: quello di un individuo che passa, in modo maniacale, la vita sui libri, con l’unico intento di apparire il primo della classe, cogliere in fallo i colleghi su quisquilie; una sorta di azzeccagarbugli, un “Pierino”, un topo di biblioteca insomma, completamente digiuno in tema di medicina sul campo e verso il quale nutrire indulgenza condita da un sorriso di compatimento. Questo atteggiamento sarà utile anche per esorcizzare le altre magre figure collezionate proprio sul campo, che aumentano di pari passo con il crescere del numero dei pazienti che si rivolgono a lui. La frequente risoluzione di casi, non solo di quelli erroneamente diagnosticati e curati, ma anche di altri esaminati con competenza ma unanimemente dichiarati orfani di terapia, lo farà considerare l’unico clinico al quale rivolgersi per situazioni senza soluzione. Pian piano molti si fanno l’idea irrazionale che per tutto lui abbia una soluzione, una cura, rendendogli più difficile e penoso confessare l’impotenza della medicina di fronte a particolari situazioni.
A questo punto la stizza dei colleghi trascolora in rabbia, togliendo quel minimo di freddezza e di buon senso necessari per evitare che le critiche rivelino la pochezza di chi le fa. Così accade quando gli rimproverano di essere un fisiologo e non un clinico, dimenticando così che fisiologi erano stati i due più grandi clinici del novecento, Murri e Albertoni. Non possono non destare sconcerto il suo rifiuto di usare prodigalmente…e impropriamente gli antibiotici (come si è continuato poi a fare per decenni), l’abitudine di consigliare, quando il caso, il ricorso a vitamine, di prescrivere preparati galenici in assenza di specialità necessarie per il caso singolo o in sostituzione di altre disponibili, ma di dubbia efficacia o accompagnate da inaccettabili effetti collaterali. D’altronde già da anni reparti ospedalieri, cliniche private, studi e ambulatori medici sono visitati con crescente e insistita frequenza da rappresentanti di medicinali, che con una pruderie ripetutasi per altre categorie saranno presto ribattezzati “informatori farmaceutici”.
Occorreranno tempo e vittime prima che siano presi in considerazione, pur non nella misura auspicabile, gli allarmi di quanti constatano, già allora, che solo un somaro può suggerire antibiotici in sindromi virali, e come l’uso indiscriminato di antibiotici selezioni ceppi sempre più resistenti di batteri e incida negativamente su delicate funzioni fondamentali dell’organismo. Per tante vitamine e sostanze fisiologiche non surrogabili, il cui impiego apporterebbe immensi benefici all’umanità, a tutt’oggi si è ancora costretti ad attendere che il mondo della sanità si liberi dai soffocanti ed avvilenti condizionamenti dell’ignoranza e del denaro.
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Nei dieci anni di apparente improduttività che corrono dal 1950 al 1960, Luigi Di Bella, in realtà, svolge un’attività di ricerca intensissima. Molte acquisizioni e conoscenze che avranno un ruolo non trascurabile nella formulazione del suo Metodo per la terapia di neoplasie e di patologie neurologiche, saranno elaborate proprio in questi anni3. Se in qualche caso apparirà il suo nome su lavori o testi pubblicati, il più delle volte occorre consultare la bibliografia per rintracciarlo. Sarebbe facile esibire centinaia di pagine autografe per individuare il vero autore; fatica inutile, visto che gli spunti più importanti troveranno sviluppo ed approdo clinico in epoca successiva. Può essere sufficiente, senza voler approfondire, affermare che numerosi lavori, comunicazioni in convegni ed anche libri apparsi in quel periodo sono stati interamente frutto della sua mente4.
Ma, ancora più importante, risulta il lavoro di ricerca effettuato eludendo di fatto i tentativi di inibizione di Girarrosto. Si tratta di una mole impressionante di tesi di laurea. La cosa potrebbe lasciare perplesso il lettore e richiede una delucidazione. Se per i lavori scritti per altri lo scienziato poteva contare su un più o meno cospicuo numero di loro collaboratori ai quali affidare lavoro esecutivo, nella ricerca che più gli premeva era solo, stante la situazione paradossale all’interno dell’istituto di Fisiologia. Ma argomentò che poteva parzialmente aggirare questo ostacolo: ciò che più gli premeva era procedere sulla strada che aveva già delineato nella propria mente, verificare tesi ed ipotesi, acquisire informazioni scientifiche. Se per il momento non era possibile pubblicare, pazienza: avrebbe atteso tempi migliori. L’espediente praticabile era mascherare il lavoro di ricerca sotto forma di tesi di laurea. Girarrosto non poteva cogliere l’importanza di determinate acquisizioni, né era in grado od aveva alcuna intenzione di sobbarcarsi questo lavoro. Per tale ragione, presso il laboratorio si alternarono innumerevoli laureandi che seguivano le sue direttive e lo coadiuvavano nel lavoro sperimentale. Non era difficile, poi, suddividere in più tesi la stessa linea di ricerca e poter contare quindi su un maggior numero di collaboratori. Se lo studente non poteva cogliere a pieno l’importanza delle conclusioni del lavoro che era chiamato a svolgere, nondimeno raggiungeva la sua meta – la tesi di laurea – ed al tempo stesso, se aveva preparazione e capacità adeguate, vedeva dischiudersi davanti a sé un mondo che nessun relatore sarebbe stato mai in grado di mostrargli. E’ quindi di grande interesse scientifico la raccolta delle tesi di laurea delle quali fu relatore lo scienziato. Già scorrendo i titoli, uno studioso non può non rimanere colpito dal pionierismo di temi che sarebbero stati trattati quaranta o cinquanta anni dopo, e non può non trasalire cogliendo in tanti passi, esposte con chiarezza assoluta, le correlazioni tra fattori di crescita e fenomeno neoplastico5.
Si tratti di tesi o di lavori, la guida fondamentale rimane quella della fisiologia, materia aggregante ed esplicativa di tutto il sapere medico. Oggi molti cadono in pericolosi equivoci: la scienza progredisce, è vero, ma ciò che non è pura ipotesi, ma dimostrata verità scientifica, non può essere contraddetto da nuove acquisizioni. Per questa ovvia evidenza, correre dietro a pretese innovazioni, ignorando il patrimonio acquisito, equivale a pretendere di costruire un grattacielo – che mai potrà essere completato dall’uomo – tenendo come sospeso nel vuoto solo l’ultimo piano edificato. Ma conoscere a fondo la fisiologia impone la padronanza della lingua tedesca. Ben pochi o nessuno tra i laureandi ed i beneficiari della sua fatica conoscono la lingua, per cui Luigi è costretto a tradurre tutte le opere, o loro parti, che devono essere citate e richiamate. Di tempo ne ha sempre meno e deve quindi far capo alle sue capacità di organizzazione ed al suo fisico, che si accontenta di poche ore di sonno: acquista due registratori – venivano denominati “dittafoni” proprio per sottolinearne la destinazione alla registrazione del parlato – e traduce interi volumi.
Nelle immagini della nostra memoria riaffiora il suo viso illuminato dalla luce azzurrina di una lampadina solare, chino sul leggio che sostiene il libro, intento ad incidere senza fermarsi che di rado a consultare qualche vocabolo; ed anche la fronte poggiata sull’apparecchio, quando il sonno riesce a prevalere sulla sua volontà di ferro. Chi questo lavoro dovrebbe saper fare e fare, si troverà già pronta la traduzione.
Un’attività simile, che lascia senza parole, non gli fa certo trascurare i figli e in particolare Pippo, che è entrato al ginnasio e che, a parte il maggiore impegno comportato da un corso scolastico allora assai serio, si trova a dover studiare il greco antico ed il francese. Il padre lo segue in entrambe le materie, nonostante abbia frequentato a suo tempo il liceo scientifico: l’estate precedente si è messo a studiare il greco antico e nonostante poco lo potessero aiutare la conoscenza dell’alfabeto e di alcuni vocaboli, appresi durante il soggiorno in Grecia, in capo a due mesi conosce a menadito la grammatica e riesce a tradurre con disinvoltura. Il guaio è che l’insegnante di lettere, nota tanto per la sua preparazione quanto per certe zitellesche ed istintive antipatie, ha preso di mira il ragazzo, infastidita dal leggero accento siciliano retaggio della lunga permanenza a Messina. Luigi è indiscutibilmente mille volte più severo ed esigente dell’insegnante, e parte dal presupposto che gli alunni tendono sempre a scaricare sui professori gli esiti poco brillanti conseguiti a scuola, ma sia le proprie constatazioni che i giudizi positivi del Prof. Eugenio Tomasini, autorevole latinista e grecista che fa lezione al figliolo, escludono che il ragazzo abbia qualcosa che non vada. Dopo alcuni colloqui diplomatici e pacati, di fronte ad una inclinazione caparbia quanto ingiustificata, affronta la professoressa e con toni risentiti le contesta punto per punto la pretestuosità dei giudizi. Il conflitto è insanabile, visto che i termini usati nell’ultimo colloquio sono stati piuttosto accesi e l’unica è iscriverlo in un’altra scuola, a Parma. Si rivolge ad una insegnante di lettere che gli è stata segnalata e che ospita in un vasto appartamento del centro alcuni ragazzi. Altra novità, questa volta gradita, i frequenti soggiorni di Tonuccio, che dopo la laurea in farmacia si è iscritto alla facoltà di Medicina e presso l’ateneo di Modena intende sostenere alcuni esami.
Proprio quell’anno, l’otto giugno 1955, muore a Linguaglossa Giuseppe Di Bella. Luigi, Pippo e Adolfo partono. Eccettuate sporadiche visite a Modena, lo scienziato non si ritrovava da anni con tutti i fratelli nella casa paterna. I suoi figli sono gli unici eredi maschi di casa Di Bella, ma non si trova il testamento, che pure si sapeva essere stato scritto e nemmeno l’orologio d’oro da taschino che il nonno aveva promesso a Pippo. Luigi non dice nulla. In assenza delle ultime volontà, la successione sarà dunque una successione legittima. Questa, visto che di denari non ce ne sono proprio, riguarderà unicamente la casa, nella quale si conviene continui ad abitare Ciccina, rimasta nubile. Alla sorella Luigi corrisponderà un piccolo vitalizio fino all’ultimo dei suoi giorni, accollandosi ogni spesa di manutenzione relativa all’immobile. Nel cimitero dorato da un tardo sole pomeridiano Giuseppe Di Bella viene tumulato accanto a mamma Carmela, che riposa ormai da quindici anni nella tomba di famiglia; poi, finita la cerimonia, Luigi e i ragazzi lasciano Linguaglossa diretti a Messina, dove pernotteranno prima di fare ritorno a casa.
Mentre l’accelerato procede verso nord toccando tutte le stazioncine intermedie, Luigi sente che è il destino, non quel treno, a portarlo lontano; il suo destino così avaro di gioie e di posa, che lo ha strappato fin da piccolo al calore delle braccia materne, negandogli, giovane, il conforto dell’armonia familiare e qualsiasi riconoscimento dei suoi sacrifici. Guarda verso il mare che appare e dispare tra case, canneti, fichi d’India, ripensa ai viaggi di quarant’anni prima, quando si andava a Pellegrino o, anni dopo, si tornava a Messina dopo le vacanze estive. Un mondo è finito ed anche l’ultimo legame, il picciolo che lo legava alla famiglia d’origine, è stato portato via dalla corrente di quel fiume che scompare nel sottosuolo del passato.
Tornato a casa, confida i suoi pensieri e le sue pene a Ciccina, che più di ogni altra persona sa quanto abbia sofferto. Le scuole sono finite e spesso il pomeriggio la moglie con i ragazzi prende il filobus e raggiunge il marito in via Marianini. E’ l’occasione per mettere un po’ d’ordine, raccogliere camici ed asciugamani da lavare a casa, portare quelli puliti, cogliere gli ortaggi dal terreno sul retro. Mentre Luigi lavora, Pippo e Adolfo si rincorrono intorno alla casa, respirando quell’aria profumata dalla menta che cresce rigogliosa nella parte anteriore del giardino: se ora è più rado l’incanto delle stelle intermittenti delle lucciole, le giornate sono più lunghe ed è possibile rimanere fino alle prime ombre della sera.
Passata l’estate e iniziato l’anno scolastico, la partenza di Pippo costituisce un colpo duro per tutta la famiglia. Ciccina non fa che pensare a quel figlio così timido, riservato, che raramente lascia trasparire le sue emozioni e che sicuramente soffre per la lontananza dalla famiglia e dalla casa. Il pomeriggio, seduta accanto la finestra del soggiorno, rammenda o ricama, levando spesso lo sguardo verso i tetti rossicci infiochiti dal grigiore autunnale; Adolfo le sta seduto accanto, chino sui compiti e con la testa altrove. Quanto a Luigi, come suo costume nasconde la tristezza ed appena può raggiunge Pippo. Spesso è l’amico Ruggero Montanari, con la solita Topolino giardinetta, ad accompagnarli di domenica a Parma. Si parte gonfi di attesa gioiosa percorrendo la via Emilia e non appena posteggiata la macchina in piazza Garibaldi, dove sorge il piccolo convitto che ospita Pippo, levando lo sguardo verso le finestre lo si vede col naso incollato ai vetri. Maria Franciosi è un personaggio meritevole di menzione. Sanmarinese, ha fatto in tempo a frequentare le ultime lezioni di Giosuè Carducci a Bologna. La statura è piuttosto bassa, ma più che compensata da una vistosa espansione orizzontale, il fisico possente, più da lottatore di sumo che da gentildonna qual è. Proviene da una famiglia illustre quasi quanto quella di Paquita, la sua aristocratica assistente che per contrasto è asciutta e sottile come un fiammifero e risponde con un fil di voce all’amica che tuona, più che parlare. Veste quasi sempre di nero, con uno sbuffo di merletti che sboccia dal colletto. Ha insegnato lettere al locale liceo classico, distinguendosi per le sue doti professionali e per un’energia al di là di qualsiasi descrizione.
Sono brevi ore di spensieratezza trascorse parlando con Pippo e l’insegnante, guardandolo mentre scarta pacchi di biscotti o dolciumi, passeggiando fino al vicino Teatro Regio dove tanti anni prima Pietro Tullio si recava ad ascoltare opere liriche con il camice che sbucava sotto l’abito di gala. Poi l’attenzione, pur dissimulata, si concentra sempre più frequente sui rintocchi del vicino campanile, man mano che si avvicina l’ora del ritorno. Ciccina stenta a trattenere le lacrime nell’abbracciare il ragazzo, mentre Adolfo cela lo sconforto con un’ultima sforzata burla e Luigi con le raccomandazioni di studiare e fare il suo dovere a scuola. Quando la guglia del campanile sfuma nella nebbia e poi scompare, sembra che un intero mondo svanisca.
L’atteggiamento dello scienziato nei confronti di allievi e laureandi è sempre rispettoso, signorile e non di rado paterno. Se si dimostra paziente, esige però impegno, studio, buona volontà e, soprattutto, sincerità. La sua figura ed il suo modo di comportarsi ispirano a tutti analoghe sensazioni: chiunque lo frequenti viene colpito dall’aristocraticità della sua figura, dal suo modo di fare e prova analoghe impressioni. Non sono pochi a vederlo come un essere che cammina senza toccare il terreno, quasi levitasse e circolano voci di leggenda, come quella che grazie a misteriosi ritrovati non mangi mai e non dorma mai. Un giovane laureando, che diventerà professionista affermato, confiderà una volta ad Adolfo: “non posso immaginare un essere come tuo padre seduto a tavola a mangiare: un atteggiamento così materiale non può appartenergli”. Nemmeno è facile spiegare l’apparente contrasto tra due opposte sensazioni condivise: a nessuno verrebbe in mente di varcare quel limite invisibile, eppure avvertito da tutti, che frappone sempre tra sé e gli altri; ma quando si è tormentati da un’angoscia o un dispiacere è proprio lui la prima persona alla quale ci si rivolge istintivamente per confidarsi e trovare conforto. Solitamente parla poco. Tace, se non può dire quello che pensa; e se invece può, le sue parole, misurate, essenziali, mondate d’ogni orpello o ghirigori, si imprimono nella mente e nel cuore degli ascoltatori. Possono essere anche forbite e ricercate, a volte, ma unicamente quando il “come” è finalizzato ad un “che”. Sarebbe difficile esprimersi con maggiore sobrietà ed assolutamente impossibile poi, con analoga incisività. In genere parliamo monitorando le parole che ci escono di bocca, modellandole sull’effetto che vorremmo producessero sull’ascoltatore e con il fine, magari inconfessato, di colpire e suscitare ammirazione; oppure, senza che ce ne accorgiamo, le parole volano in libera uscita dalle labbra, si richiamano a vicenda come tenendosi per mano, vuota combriccola priva di delega da parte del pensiero. Lui ha un ben diverso concetto del comunicare. Lo ha sempre detto, d’altronde: “bisogna dare alle parole il significato che hanno”. Parlare è spedire ad altri il proprio pensiero tramite il corriere del simbolo fonico e la parola deve essere l’ombra cinese di un concetto. Altrimenti se ne farà fatalmente un’entità autonoma capace di confondere ed ingannare se stessi prima ancora degli altri.
La stima che gli allievi provano è più inevitabile che prepotente. Un misto di rispetto e di timore accompagna il suo apparire, subito seguìto da una sensazione che si scopre essere comune: basta lavorare con lui e seguirne le direttive, per sentirsi migliori, come se quell’uomo piccolo dai capelli prematuramente bianchi avesse il potere di cavare il meglio da ognuno. Anche i confini della stanchezza fisica e mentale si spostano in avanti e le ore di lavoro passano senza rendersene conto. D’altronde come si potrebbe non rimanere contagiati, quasi senza accorgersene, da quella sua incessante attività, da quella pacata febbre alla continua ricerca di verità e di certezze? Ci sembra non solo strettamente apparentata, ma rivelatrice la visione di Michelangelo intento con lo scalpello a “liberare la figura imprigionata dal blocco di marmo”. Si arriva sempre alla stessa conclusione: scienza ed arte sono i due strumenti a disposizione dell’umanità per scoprire la bellezza del mistero ed il mistero della bellezza celati dall’universo. L’unica differenza è che Luigi Di Bella, come altri grandi ricercatori, guida il suo scalpello avendo sì nella mente il profilo della figura, ma sempre pronto a seguire i contorni che di volta in volta si riveleranno alla sua osservazione e ad inchinarsi alla realtà, sacrificando, se necessario, l’ipotesi di partenza. Ma condivisa è la commossa gioia di fronte all’opera compiuta: un lembo di eterno strappato da un essere mortale. A vederlo lavorare composto, pacato, senza mai un’espressione di stanchezza, ci si vergogna a sentire gli arti indolenziti, gli occhi irritati, la testa pesante. Ma se la conclusione della giornata coglie sfiniti ed apparentemente impazienti di sgranchirsi le gambe e mettere un boccone sotto i denti, spesso giunge una gratificazione preziosa. Soddisfatto per il lavoro svolto e segretamente intenerito da quei giovani nei cui occhi si legge tutta la stanchezza accumulata, lo scienziato risponde volentieri alle loro timide domande di natura personale, rivolte magari mentre hanno già il soprabito sulle braccia e sono in procinto di salutarlo: in quelle circostanze apre a volte una porticina della sua anima, salvo chiuderla subitaneamente all’affacciarsi della torma dei sentimenti. Così accade quando si interessa minutamente delle loro famiglie, prende parte alle loro preoccupazioni per l’avvenire, li consiglia, racconta qualche episodio della sua vita; e non mancano occasioni nelle quali si produce in descrizioni e battute capaci di fare ridere a lungo loro e lui stesso, con quell’espressione di angelica bontà che richiama, ancora una volta, il bimbo dagli abiti logori di Pellegrino. Molti ricorderanno come magici quei minuti passati in un’atmosfera di confidenziale bonomia, sentendosi invasi da una poesia e da un sobrio ma intensissimo calore umano che nessuno riesce, come lui, ad evocare e da una sensazione apparentemente misteriosa: basta ascoltarlo anche per breve tempo per sentirsi come pacificati e ridimensionare ansie ed inquietudini. Tutto sembra tornare al proprio posto e la gerarchia nel valore delle cose ristabilirsi; come si guardasse una città, che solitamente smarrisce e inquieta con il suo brulicare d’uomini e l’indistinto vociare, dal silenzio di un’alta montagna. Se lo si è seguìto nella sua vita, non è difficile comprendere il suo modo di rapportarsi con gli altri: pudore da una parte, diffidenza dall’altra, ai quali si unisce l’esigenza di difendersi da se stesso, da quell’immenso amore per l’uomo che la ragione fatica a tenere a freno. Una fame d’amore insaziabile e disperatamente contesa al timore di soffrire per la doppiezza e la dissimulazione del mondo. In questo esasperato magnetismo tra due poli opposti, irrisolto perché irrisolvibile, possono leggersi tanti dei comportamenti e tante delle azioni di Luigi Di Bella.
Il Natale del 1955 sarà uno dei più sereni: Pippo è tornato da Parma per passare in famiglia il periodo delle vacanze e trova a casa Tonuccio, che riempie di doni i nipoti. Nella stanza da pranzo, sotto l’abete illuminato da graziosi lampioncini verdi, gira silenzioso un trenino elettrico Rivarossi: il minuscolo faro della locomotiva risplende nel buio, seguito dallo sguardo incantato dei ragazzini e da quello furbesco e curioso di Stelluccia, la gattina siamese che da due anni rallegra la casa. Lo scienziato, che avrà sempre una particolare predilezione per questa razza felina, ha un rapporto speciale con la bestiola e lei con lui: lo attende immancabilmente davanti alla porta, mentre pranza si accovaccia sulle sue spalle e gioca con la penna con la quale il padrone le solletica il dorso. Nel tepore diffuso dalla cucina economica e dalla stufa di cotto smaltato della stanza da pranzo si succedono giorni di intima poesia familiare. E’ questa la massima aspirazione dello scienziato, che vede gradualmente rimarginarsi le ferite aperte da tanti anni di amarezze e di contrarietà e trae forza e coraggio da quella pace: alla quale tanto contribuisce l’amore e l’apparente serenità di Ciccina. Con la sua mantellina di lana rosa sulle spalle, il pomeriggio siede accanto alla finestra del tinello intenta a lavorare e ogni tanto volge il capo a fissare i radi passanti: ma la serena atmosfera familiare non riesce certo a tacitarne le preoccupazioni per il padre Giovanni, la cui salute non è delle migliori. Partito Pippo, non mancherà qualche altra occasione di lieta convivialità. Così accade quando alcuni laureandi concludono brillantemente il corso di studi e lo scienziato organizza una serata invitando loro e qualche altro allievo. Sono ore di spensieratezza e allegria, con Luigi e Ciccina che si alternano al pianoforte accompagnando i più intonati dei presenti. Nell’occasione un dittafono, pur con i suoi limiti di fedeltà timbrica, registra il piccolo concerto.
Arrivato l’anno 1956, dopo l’estate ed il consueto breve soggiorno a Messina, questa atmosfera festosa si dissolve repentinamente. Già l’anno precedente si era spento Adolfo Runci ed ora Giovanni Costa accusa un accelerarsi delle sue crisi, causate da calcoli vescicali che, nonostante il consiglio di Luigi, non si è sentito di fare eliminare chirurgicamente. Per giunta Tonuccio, capace di risolvere i problemi che di volta in volta si presentavano grazie ai suggerimenti avuti dal cognato, è di nuovo a Modena per sostenere gli esami finali e Peppino e le sorelle vogliono evitargli motivi di preoccupazione in un momento così delicato del corso di studi: sopraggiunta una delle frequenti crisi del padre, si rivolgono a due medici amici che, in spregio alle procedure fin là seguite, adottano una forte terapia antibiotica, facendo precipitare le condizioni dell’anziano farmacista. Il 7 novembre un telegramma inviato a Modena avvisa che è grave e Tonuccio e Ciccina partono, ma quando arrivano il padre è già spirato. Pippo è a Parma e Adolfo ha iniziato da poco l’ultimo anno delle elementari: non è certo il caso di fargli perdere giorni di scuola. Luigi si prende cura del piccolo con la sua consueta amorevolezza. Certo, il bambino sente molto il distacco dalla madre, fra l’altro partita senza che lui lo sapesse: si è un po’ insospettito per un abbraccio più forte del solito e guarda distratto e impensierito un film western nel cinema dove il papà lo ha accompagnato, raccomandandolo all’attenzione della maschera. Nessuna parola quando il papà lo va a riprendere e lo porta con sé a S. Eufemia. La sera soltanto, quando si apre la porta su una casa buia e silenziosa, appare evidente la realtà. Il padre lo informa in modo diretto e senza quelle pietose bugie che costituiscono uno degli strumenti meno educativi adottati nei confronti dei bambini: “la mamma è andata a Messina perché il nonno sta male. Tornerà presto”.
Luigi è commosso e intenerito dalla malinconia di Adolfo, incline, come lui, a manifestare la gioia ma a celare il dolore e lo circonda di ogni attenzione, pur con l’apparente rudezza e laconicità del suo fare. Ogni mattina prepara la cioccolata calda per il suo piccolo, gli ordina quaderni e libri nella cartella e lo accompagna a scuola, attendendolo a S. Eufemia. Insieme vanno a mangiare un boccone in una piccola trattoria del centro, la Trattoria Bolognese, in via Taglio. Il menù più frequente è costituito da una porzione di lasagne verdi e da una cotoletta. Dopo che il bambino ha finito i compiti, può andare a giocare nel cupo giardino dell’istituto, a meno che non si metta a leggere qualche libro che il papà gli ha procurato. Ma spesso il pensiero vaga lontano, verso la tenerezza della mamma, il calore della casa di via Cucchiari, le fusa di Stelluccia, che li accoglie ogni sera con i suoi sconsolati occhioni celesti. Spesso il pomeriggio ha uno svolgimento più vario e movimentato, visto che Luigi si reca a Bologna, all’ospedale S. Orsola, a lavorare per il Prof. Paolo Carcò ed i suoi allievi. E’ un’esperienza preziosa, che consente ad Adolfo di venire a contatto con un altro aspetto della complessa vita del padre, lo fa assistere ai conciliaboli tra gli aspiranti alla docenza o al primariato, a liti, alleanze, pettegolezzi, borbottìi, litigi, malignità. Ma, pur così piccolo, gli fa comprendere l’immensa distanza che corre tra lo scienziato ed i colleghi. In poche parole, comprende chi è il proprio padre. Come non averne coscienza, guardando potenti della medicina – abituati a comandare, governare sconfinati istituti, maneggiare fondi cospicui, avanzare per le corsie seguiti da una scia brulicante di aiuti ed assistenti cerimoniosi in perpetuo agonismo, conferire con politici altolocati, frequentare certi club esclusivi – sedere compìti come fossero scolaretti con grembiulino nero e colletto bianco, prendere appunti faticosamente, obbligati, di frequente, a chiedere spiegazioni! Qualche volta il lavoro non può essere interrotto e ad ora tarda il bambino addormentato viene avvolto in un plaid e accompagnato insieme al padre a Modena. A Messina Ciccina ha dovuto attendere l’espletamento di pratiche burocratiche connesse alla successione di Giovanni Costa. Finalmente preannuncia il ritorno a casa ed il padre lo comunica ad Adolfo una sera che sono insieme a Bologna, ospiti del dottor Canciullo, al tempo assistente del Prof. Carcò. La mattina seguente, mentre Canciullo li accompagna a Modena, guardano incantati il succedersi dei campi purpurei di sole nascente, il fulvo fogliame caduto che inanella i platani della via Emilia, guizzi vermigli dell’alba sui vetri dei casolari. Entrambi già vedono gli occhi azzurri di Ciccina, già sentono il suo delicato profumo di “violetta di Parma”, ma Luigi sa quali impressioni dolorose la attendano a casa e si rattrista anche al pensiero che si è concluso quel periodo della sua vita a stretto contatto con il più piccolo dei suoi piccoli. Ha dovuto trattenere tenerezza ed amore e sacrificarli alle esigenze educative, che impongono un minimo di apparente distanza tra genitori e bambini. Mentre fissa la meravigliosa campagna autunnale, pensa ai tanti episodi di quella breve parentesi, indovina le emozioni del figlio e si rivede, cucciolo cencioso, tornare a Linguaglossa alla fine della scuola; a fatica poi trattiene un sorriso quando gli risuona negli orecchi quello che qualche sera prima, tornando a casa, ha esclamato Adolfo con piglio da uomo maturo: “no papà, così non si può andare avanti!”.
Avanti invece si va e molto meglio di prima: non solo i debiti sono stati interamente saldati, ma Luigi è riuscito a mettere da parte una sommetta discreta, gradualmente versata in un libretto per la realizzazione di un vecchio sogno, quello di possedere una casa tutta sua. Questo sovvertimento di una situazione apparentemente senza sbocchi è stato consentito da un lavoro al quale ben pochi avrebbero resistito e favorito, oltre che dalla sua proverbiale frugalità, anche da quella della vita familiare del tempo: le spese di riscaldamento, che oggi incidono in misura rilevante nei bilanci della famiglie, si riducevano a qualche quintale di carbone; il termine week end aveva un significato esclusivamente per chi conosceva l’inglese, non esisteva il flagello degli infiniti fast food odierni ed ancora lontani erano i mille costosi diversivi finalizzati a sprecare vita e denaro. Ne risultava favorita l’ineffabile poesia familiare, l’educazione delle nuove generazioni, l’autonomia di pensiero. Di lì a pochi anni una autentica orda di nuovi barbari avrebbe infranto le porte delle abitazioni, invaso le case, insozzato e deriso ogni simbolo di nobiltà d’animo e idealità. Quel piccolo ma formidabile argine all’invasività del collettivo che è la famiglia, verrà additato quale ostacolo da abbattere ad ogni costo. Già, occorre interrompere la commossa staffetta da una generazione all’altra che è il presupposto di ogni progresso civile, strappare i vulnerabili giovani alla protezione dei genitori, slacciare e gettare nell’immondizia quella corazza fatta di princìpi, raccomandazioni, indispensabili limitazioni che, sola, può salvarli dalle intemperanze di un’età inesperta e dalle sirene collocate ad ogni angolo di strada da chi intende annichilire, possedere, soggiogare l’uomo con immonde suasività.
Lo sa bene Luigi, che combatte questa tendenza a lui ben chiara con una capillare attività pedagogica rivolta ai figli. Non manca mai di addestrare il loro senso critico e abituarli a rifiutare qualsiasi opinione prima di averne verificato i fondamenti con lucidità. Si può trattare di cose di poco conto o di fatti importanti, ma il principio non cambia. Così, ad esempio, non manca mai di incrinare i messaggi pubblicitari già dispensati generosamente in ogni forma di comunicazione. Si può trattare di un sapone dai supposti effetti portentosi sulla pelle: “ma chi l’ha detto? Sai cosa ci mettono dentro? E poi, tu sei maschio, cosa ti importa della pelle vellutata eccetera eccetera?”; o di una bibita dal vantato ineguagliabile potere dissetante: “niente disseta più dell’acqua; e poi, tu sai come le fanno?”; o di un oggetto inutile: “sei sicuro che ti serva davvero?”; o di una delle tante mode che, come uova pasquali dalla sorpresa letale, inducono il timore che la disapprovazione dei più sancisca l’eventuale rifiuto. Ma questo vale soprattutto per le opinioni, i giudizi sul tempo presente e quello passato, le valutazioni di eventi e di uomini, la legge morale; una continua lezione di vita e di libertà intellettuale che non ha eguali e che, d’altronde, è sempre stato il viatico di qualsiasi uomo degno di essere ricordato.
Se la vita universitaria non fa registrare novità degne di rilevo, il lavoro in via Marianini si intensifica. Cavie e conigli sono alloggiati nello stabulario esterno, mentre le gabbie dei ratti Wistar sono all’interno del laboratorio. Reduce da una giornata trascorsa in istituto, Luigi, aiutato da qualche laureando, rimane per ore in piedi in quella che con una certa enfasi potrebbe essere definita la camera operatoria. Anche se gli animali sono il più delle volte destinati ad essere sacrificati, non tollera che soffrano. Adolfo assiste di frequente alle varie fasi degli esperimenti, dall’anestesia, effettuata tramite etere sotto una campana di vetro, alla depilazione, all’incisione, all’intervento sperimentale, apprende i nomi dei principali ferri chirurgici e li porge al padre quando questi glieli chiede. C’è anche un nuovo inquilino, a dire il vero poco interessato all’attività scientifica: Bill, un pastore tedesco dal collo taurino che è stato regalato ancora cucciolo al fisiologo. Anche in questo caso non è difficile indovinare a chi sia riservata la predilezione del lupo. Spesso, nelle rigide sere invernali di allora, è lo studio ad ospitare padre e figlio. La caldaia è stipata di carbone fino a capienza e Adolfo coglie l’occasione, ogni tanto, per sgranchirsi le gambe e andare a controllare, accompagnato dal rumore delle unghie del cane che lo segue. Le fusa dei termosifoni doppiano il silenzio dell’ora, mentre due fasci di luce illuminano i libri dello scienziato e del ragazzino e Bill sonnecchia imponente nella penombra sul tappeto; quando si fa tardi, le ultime palettate di carbone per Bill che ha il suo giaciglio accanto alla caldaia e padre e figlio, l’uno dietro l’altro, fendono la nebbia imbacuccati, preceduti dalla tremolante luce ocra del fanale e dal lamento della dinamo, per i quasi cinque chilometri di via Emilia che dividono il laboratorio dalla casa.
All’inizio del 1957 si presenta finalmente l’occasione sognata: a un chilometro da via Cucchiari sta per iniziare la costruzione di un condominio, con prezzi accessibili, visto che la zona, oggi ben quotata, è al tempo considerata periferica. Luigi non esita, contatta la cooperativa edilizia, parla con gli altri acquirenti, che lo nominano loro presidente, firma il compromesso. Solo chi non conosce e non comprende l’uomo, può stupirsi per l’entusiasmo con il quale si interessa e segue i lavori: la casa, il rifugio, il nido degli affetti familiari, la soddisfazione di realizzare qualcosa, valgono ben più di tanti segni esteriori di vacua affermazione personale. Il progetto prevede due corpi edilizi, uno più esteso, lungo la via Circondariale Sud, l’altro a questo affiancato. Non si tratta di uno degli squallidi casermoni che hanno deturpato tante città italiane: il progetto contempla una costruzione di tre piani dall’aspetto grazioso e pochi appartamenti. La sera Luigi passa in rassegna i lavori fatti nel corso della giornata, prende misure, con una torcia elettrica fruga dovunque, controlla. Certi lavori l’impresa di costruzione sarà costretta a rifarli più volte. Fa domande sulla percentuale di sabbia e di cemento, le modalità ed i tempi di miscelazione, la quantità e qualità del ferro impiegato, la scelta di determinati materiali. Il responsabile dei lavori rinuncia presto a rispondere alle contestazioni, sbalordito dalla competenza che sarebbe propria di un ingegnere, non di un professore universitario della facoltà di medicina: e si adegua. La scelta cade su un appartamento al primo piano, per il quale chiede accorgimenti particolari, nonostante la già robusta struttura generale, e materiali fuori capitolato: la sezione dei ferri viene raddoppiata rispetto allo standard comune, questi vengono agganciati tra di loro così da realizzare una struttura unica e collegata per il lungo ed il largo dell’appartamento, la soletta sulla quale posare i pavimenti si conviene abbia uno spessore anch’esso doppio. La futura inquilina del piano superiore dirà allo scienziato: “Professore, anche dovesse venire un terremoto sono tranquilla, perché la mia casa poggerà sulla sua e questa non viene giù di sicuro”.
Curiosa e da raccontare la genesi del disegno e dei colori relativi al rivestimento del bagno. Una sera della fine 1957, nella casa di via Cucchiari Luigi illustra a Ciccina come vorrebbe fosse il rivestimento di ceramica smaltata; ha già tutto in mente, dal disegno sfalsato delle piccole piastrelle, al loro colore alternato, ma occorre dare un tracciato preciso ai posatori. Gli cade l’occhio sulla scatola di acquerelli di Adolfo, l’ideale. Prende a disegnare l’ordito delle ceramiche e si appresta a colorare i rettangoli così tracciati, quando si accorge che il pennellino è calvo, privo ormai di setole: basta un’occhiata ad Adolfo per sostituire le setole di tasso con un ciuffetto dei suoi abbondanti capelli, rapidamente assicurato al legno del pennello con filo di cotone. E in qualche minuto la greca delle piastrelle colorate e sfalsate appare come per miracolo sul foglio dell’album da disegno! Con la consueta energia e quel meraviglioso potere di organizzare e tesaurizzare il suo tempo, Luigi ha già scelto e commissionato tutti gli extra: qualche volta, la domenica, porta Ciccina a vedere l’appartamento e ad illustrarle gongolante i suoi progetti di arredamento e di sistemazione. Anche in questo atteggiamento ingenuo e spontaneo, nella capacità di assaporare con vivezza ogni istante dell’esistenza, riaffiora l’eterno infante che sempre alloggia in ogni uomo superiore e che gli consente di diventare sì maturo, ma evitando la sclerosi emotiva dell’adulto.
I Tirelli sono naturalmente rattristati per la partenza di quella famiglia alla quale li uniscono legami di affetto sincero alimentatisi in quasi vent’anni di vicinanza. Quando nel luglio 1958 Pippo supera brillantemente gli esami di maturità e torna definitivamente da Parma, la casa è pagata fino all’ultimo centesimo, ma fino all’ultimo centesimo si è svuotato il libretto del capo famiglia, che deve tirare i freni, come si suol dire e attendere di riaversi dal salasso. Il trasloco avviene in modo pittoresco con un carretto trainato da un somarello e l’aiuto di un paio di uomini di fatica; di supporto, dà una mano Carlo Montanari, medico nipote dell’amico di famiglia Ruggero, che ha procurato un cassone solidale ad una bicicletta. Pian piano tutto viene trasbordato in alcuni viaggi, nel corso dell’ultimo dei quali Carlo Montanari alla guida, Pippo e Adolfo nel suddetto cassone, schiamazzano allegramente per strada: complice la troppa allegria, i tre ruzzolano dal cassone che si ribalta per una curva troppo stretta, senza ulteriori conseguenze che altri scoppi di risa sul ciglio di un fossato.
A tutti sembra di sognare. L’appartamento è bello, luminoso, spazioso grazie anche ad una suddivisione ottimale della superficie e dotato di ogni comodità. A piano terra due ampi locali fungono da garage e da cantina, con una caldaia a nafta per essere autonomi dal riscaldamento del condominio; anche la soffitta è abbastanza capiente. Dall’ingresso dell’appartamento un corridoio, che finisce contro la porta dello studio, dà accesso alle stanze: la cucina, il bagno e la stanza dei ragazzi, sulla sinistra; stanza da pranzo, salotto e camera da letto a destra. Un balcone si affaccia sulla via, una veranda vetrata sul cortile interno. Luigi guarda beato tutta la casa ed i pavimenti che ha scelto amorevolmente: marmittoni nella cucina, marmo rosso di Sicilia nel corridoio, verde Aosta antico nel salotto e color panna nel salotto, parquet nelle camere da letto e nello studio; in bagno il pavimento è un marmo rosato, mentre il rivestimento riproduce il disegno preparato dallo scienziato con il ciuffo di Adolfo. Non manca il tocco di ironia voluto dal padrone di casa: sui servizi campeggia una targhetta di ceramica murata tra le piastrelle: “saranno grandi i Papi, saranno grandi i Re, ma quando qui si siedono, son tutti come me”. Nello studio cinque librerie dai vetri giallini, sormontate da scaffalature svedesi fino al soffitto, ospitano le migliaia di libri acquistati nel corso di anni, prevalentemente presso le bancarelle di libri usati del centro di Modena. Si tratta di una biblioteca variegata, dove accanto all’opera omnia di Dante, Shakespeare, Goethe, Stendhal, Leopardi, Flaubert, Maupassant, Dostoevskij, trovano ospitalità altri capolavori della letteratura italiana e straniera, saggistica varia, testi di storia. Una scrivania ed un lettino per le visite domenicali completano l’arredamento. Presto la casa si arricchirà di parecchi quadri e mobili antichi, al tempo acquistabili a cifre molto convenienti, visto che Luigi bazzica presso le rarissime botteghe d’antiquariato della città, antri bui, disadorni e ben poco frequentati. Progetta e fa realizzare un arco in noce tra stanza da pranzo e salotto, locali che formano praticamente un salone, per breve tratto interrotto da due muretti alti un metro. Su questi, delimitati da due colonne di legno con capitelli, poggiano due intercapedini di legno che ospitano un piccolo spazio chiuso da vetri rossi verso il salotto, verdi verso la stanza da pranzo; quando sono accese le lampadine alloggiate all’interno, i due ambienti si tingono degli stessi colori dei marmi del pavimento. Ama e amerà intensamente fino all’ultimo dei suoi giorni quella casa che ha sognato, progettato, realizzato, unico riparo e consolazione dalla crudezza del mondo.
Quanto ai ragazzi, Adolfo frequenta le medie, mentre per Pippo si pone la difficile scelta della facoltà universitaria, che cade su Medicina. Il padre cerca di dissuaderlo, gli fa presente quanto sia dura la strada da percorrere, quanto continuo l’impegno e non manca di avvertirlo che potrebbe incontrare difficoltà ulteriori per il nome che porta. Ma Pippo è determinato ed il padre non può che prendere atto della decisione. Inizia così un periodo di relativa serenità, che, tra alti e bassi, durerà abbastanza a lungo. Adesso l’ansia per l’avvenire della famiglia ha minor ragione d’essere, visto che, quantomeno, ci sono due immobili di proprietà. All’università sembra che qualcosa vada meglio: non che Girarrosto abbia mutato atteggiamento, ma ora viene a trovarsi di fronte a fatti non previsti. Da una parte la comunità accademica, pur nella sua prevalente mediocrità, guarda con un certo timore verso i comportamenti a volte troppo disinvolti di “mala ‘i capa”, del quale è di pubblico dominio una vasta e non certo lusinghiera aneddotica; dall’altra, alcuni baroni, vuoi per calcolo, vuoi per un rudimento di resipiscenza morale, desiderano che non vengano superati certi limiti nelle prepotenze inferte allo scienziato. Ed è bene non dimenticare come il vergognoso sfruttamento cui è stato sottoposto ha fatto e fa comodo a tanti e che la sua produzione scientifica raddoppierebbe numericamente – perlomeno – se apparisse il suo nome. Proprio in quel periodo vede la luce un lavoro, l’unico che porti il nome del vero autore, tra la copiosa messe di pubblicazioni sfornate dalla Clinica Oculistica6. Ma c’è di più. Paolo Carcò è un personaggio potente e temuto, ed è ormai notorio il suo rapporto di collaborazione con Luigi: tutto sommato, è più igienico evitare grane. In questo periodo l’intera clinica otorino del S. Orsola beneficia a piene mani del lavoro di Luigi, che non chiede mai nulla, ma nei confronti del quale il livello di riconoscenza sale sempre di più. Carcò tenta di indurre l’amico a frequentare ambienti che sarebbero assai utili per un possibile riscatto dalle angherie subite, ma Luigi non è fatto per frequentazioni che non gradisce, né per riti esoterici che sarebbero incompatibili con le sue idee e mortificanti per un uomo ed uno studioso qual’egli è. A dire la verità il momento sarebbe favorevole, anche perché non si ripeterebbero certi veti del passato, ora che il “Conte zio” è passato a miglior vita e un’intera generazione di satrapi universitari è tornata nell’aurea ombra del pensionamento. Ma non c’è niente da fare. Qualche anno dopo Paolo Carcò, visitando Ciccina che accusava disturbi preoccupanti ad un orecchio, le dirà: “signora, persuada lei Luigi, perché io non so più cosa dire per convincerlo. Una cattedra, neanche lontano da qui, sarebbe cosa già fatta. Basta che lui sia d’accordo”. Ma un uomo della tempra di Luigi Di Bella non cade mai nell’incoerenza né si piega ad alcun espediente, anche quando dovesse trattarsi di fargli conseguire quello che gli sarebbe spettato di diritto vent’anni prima.
La vita domestica segue un ritmo sereno e regolare. Luigi ha conservato le abitudini di sempre, levandosi di buonora e svegliando Adolfo perché faccia colazione, si prepari e dia una ripassata alla lezione del giorno. Nella stagione fredda riattizza il fuoco nell’amata cucina economica, sempre in funzione nonostante l’impianto di riscaldamento, ripone gli abiti sullo schienale di una vecchia sedia e va sotto la doccia; ma, affinché anche quel breve tempo sia utilizzato, porta in bagno una vecchia radio per ascoltare le prime notizie e un po’ di buona musica, che allora non era ritenuta un pericolo per la democrazia. Si reca all’istituto con l’amata bicicletta, talmente inseparabile dalla sua figura da costituire un tutt’uno, quasi si trattasse di un nuovo genere di centauro metà uomo e metà bicicletta. Quando torna a pranzo trova Pippo e Adolfo a tavola con Ciccina, cuoca provetta che continua la tradizione della cucina prediletta dello scienziato: quella siciliana. I suoi piatti preferiti sono i legumi, che personalmente mette a bollire la sera, di ritorno da S. Eufemia, sulla piastra della cucina, le frittelle di baccalà, che Ciccina prepara secondo una formula originale ed inimitabile, le crocchette di patate, gli spaghetti con le zucchine fritte, la parmigiana, i peperoni ripieni. Quando può, finito di pranzare si stende un poco sulla poltrona dello studio e legge, assopendosi poi per una mezz’ora. La domenica, se non attende persone da visitare, suona il pianoforte. Inizia solitamente con le sonatine di Clementi, così utili per sciogliere le dita, e passa quindi all’amata lirica; qualche volta al piano siede Ciccina, mentre lui la doppia suonando l’armonium.
Certi pomeriggi domenicali il concerto si prolunga per ore, mentre la luce di un sole maturo dora prima, e imporpora poi le pagine degli spartiti, i tasti dello strumento, i suoi capelli di candida seta, in un incanto di melodie e di sogni che sembrano provenire da un altro mondo. Solitamente, quando scendono le prime ombre della sera, inforca nuovamente la bicicletta e torna per qualche ora in istituto; ma capita anche che, già in piedi ed in procinto di andar via, sia trattenuto più a lungo da qualche concerto trasmesso dalla televisione. A dire la verità, detesta di tutto cuore quel mezzo di invasione dell’intimità familiare e di condizionamento dell’intelletto, che si riabilita ai suoi occhi in particolari occasioni. Ascolta incantato le esecuzioni solistiche, specie di Arturo Benedetti Michelangeli e quelle orchestrali, commentandole con acutezza e proprietà.
Un giorno di dicembre del 1960 una macchina nuova fiammante si ferma davanti al civico 571 di via Circondariale Sud. Il dottor Canciullo consegna a Luigi le chiavi della Bianchina Panoramica che “il S.Orsola” ha deciso di regalargli. E’ un gioiellino, col suo color turchese, il tettuccio nero ed il collaudato motore della Cinquecento che gira come un orologio e, a basso regime, ricorda il borbottìo della caffettiera. Ovviamente dietro c’è la regia di Paolo Carcò, bene a conoscenza dei desideri dell’amico. Canciullo, siciliano come Carcò e Sulsenti, ha un’adorazione per il fisiologo e si degusta le sue espressioni di gioia e di interesse mentre gli illustra le caratteristiche della vettura che, appena girata la chiave, sembra salutare il padrone con le luci multicolori del minuscolo abete natalizio montato accanto al lunotto posteriore.
Luigi non ha la patente; nei ritagli di tempo studia la teoria, prende lezioni di guida e inizia a fare pratica, la domenica, con Berto Simonini, il tecnico dell’istituto di Fisiologia che è venuto ad abitare al terzo piano. A Canciullo, che lo va a trovare in istituto un paio di settimane dopo, annuncia con candido orgoglio: “ma lo sa che ho fatto già cento chilometri?”. Inutile dire che impara a menadito il manualetto della scuola guida prima di passare a letture più impegnative e riservate ad addetti ai lavori. Si tratta pur sempre di applicazioni della fisica, perlomeno con il taglio che dà lui agli argomenti. In quest’occasione nasce una delle amicizie più solide della sua vita, quella con la famiglia Cuoghi. Luigi chiede al Sig. Schianchi, socio con i fratelli di una rinomata ditta di costruzioni edilizie, di indicargli un’officina di sua fiducia e l’amico gli segnala la “Cuoghi & Arletti”, che cura la manutenzione dei mezzi dell’impresa Schianchi. All’inizio del 1961 lo scienziato si presenta all’officina, rivolge molte domande al Sig. Cuoghi e gli chiede su quali testi può approfondire lo studio della meccanica e del motore. Conosce anche un ingegnere progettista della Ferrari, dal quale si informa circa i criteri ai quali si ispirano per nuovi modelli di motore. Nel giro di poco tempo gli dà alcuni consigli di progettazione che l’ingegnere, sbalordito quanto mai, mette in pratica, ottenendo un incremento sulla potenza preventivata. Continua a scorrazzare con la compagnia di Berto, a dire il vero un poco in apprensione per la velocità di guida di quell’originale apprendista. L’esame per la patente rimarrà negli annali dell’Automobile Club. Cura con meticolosità la sua Bianchina: certe domeniche lo si può vedere steso sotto la macchina intento a svitare la coppa dell’olio, e, dopo aver lasciato colare a lungo il lubrificante, a lavarla con un apposito solvente che ha improvvisato in laboratorio, prima di rifornirla di olio fresco. Progetterà, senza peraltro realizzarlo, anche un sistema per ottenere una frenata più equilibrata e senza il rischio di deleteri bloccaggi: senza saperlo …ha ideato il primo “ABS”! Ora che può spostarsi a suo piacimento, la domenica porta Ciccina a fare brevi gite e raggiunge periodicamente Pompeo, che è primario di ginecologia a Pisa.
Più di una volta porta con sé Adolfo e insieme percorrono l’autostrada del Sole che è stata attivata da poco nel tratto Bologna-Firenze. Il tratto in salita costringe la macchinina a procedere a velocità moderata, ma quando ricomincia il piano il tachimetro è costantemente sui 110 chilometri orari. Condurrà poi tutta la famiglia a visitare la villa di S. Agata, vicino Parma, ricca di cimeli verdiani, a Sirmione ed al vicino Vittoriale, dove aveva vissuto l’ultima parte della sua vita Gabriele D’Annunzio. La storia in generale e quella d’Italia in particolare, ha sempre appassionato lo scienziato; sulla prima guerra mondiale ha poi letto una quantità di testi, comprese le memorie, in lingua originale, di Conrad7. Decide così di visitare il Sacrario di Redipuglia. Si parte di mattina presto per arrivare all’ora di pranzo. Tutta la famiglia sosta silenziosa di fronte allo spettacolo grandioso e al tempo stesso triste dell’immenso cimitero. Luigi sente intimamente dentro di sé la tragedia di quelle migliaia di vite stroncate, delle loro famiglie e ricorda, con la stessa vivezza di una memoria recente, i biglietti listati a lutto che venivano inchiodati sulle porte delle abitazioni a Pellegrino ed a Linguaglossa. Rievocherà più volte la profonda impressione di quella visione di lapidi, degli ossari, delle armi arrugginite che celebrano l’immenso sacrificio. Di sicuro, quei giovani falciati nel fiore degli anni avrebbero voluto essere ricordati da un italiano come lui, e non dai politici delegati alle cerimonie di commemorazione, larve d’uomini indifferenti al sacrificio e agli ideali dei caduti. Di lì raggiungono Trieste per fare ritorno a casa sotto un vero fortunale, con la povera Bianchina che continua il suo cammino sotto la pioggia torrenziale.
Potersi spostare senza complicazioni significa anche, l’estate, accettare l’incarico di presidente agli esami di maturità. Cosa che gli garba per diversi motivi: raggranella qualche soldo, può soddisfare la sua passione per le arti figurative visitando chiese e musei, viene a contatto con nuove persone e rinnova, arricchendola, la conoscenza delle materie classiche. La sua presenza ha il potere di favorire l’armonia tra i membri delle commissioni esaminatrici, portando ad un clima più sereno del quale beneficiano anzitutto gli esaminandi. Certo, non è uomo da prendere sottogamba, si deve lavorare molto e con coscienza e, quanto alle raccomandazioni, occorre fare molta attenzione, ma alla fine l’esame di maturità assolve alla funzione che dovrebbe avere: selezionare ed incoraggiare chi ha attitudine allo studio e convincere a cambiare strada chi non ne ha. Detesta il nozionismo sterile, mentre apprezza la vera cultura: occorre aiutare chi vale, ma risulta sfavorito da ansia ed emotività e non tollerare che branchi di somari, come oggi avviene, invadano le università sottraendo magari braccia robuste al lavoro dei campi. D’altra parte può constatare tutti i giorni come l’arrivismo ed il carrierismo abbiano devastato gli atenei e, insieme a questi, la classe intellettuale del paese.
Questo suo impegno pluriennale gli farà stringere amicizie che dureranno tutta la vita, come quella con il Prof. Biral e la Prof.ssa Giuliana Salmon, mentre le librerie di casa andranno riempiendosi di libri d’arte e di centinaia di cartoline, singolare abitudine che conserverà anche in futuro nel corso dei numerosi viaggi per partecipare a congressi scientifici.
Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta il laboratorio di via Marianini conosce un’intensa attività di ricerca, supportata, come detto in precedenza, dalla presenza di laureandi che preparano la tesi. Alcuni argomenti trattati consentono di ricostruire l’iter delle più significative ricerche e la lunga e complessa elaborazione che porterà pochi anni dopo ad importanti sbocchi terapeutici8. Occorre passione e genuino interesse scientifico per chiedere la tesi al Prof. Luigi Di Bella, essendo notorio che il lavoro sarà lungo, impegnativo, non consisterà di sicuro in una platonica stesura di concetti stantii di nessun interesse pratico e men che meno in arzigogoli da tavolino. Ma all’interesse di genere professionale si unisce anche un vantaggio concreto per chi aspira ad un posto in un’azienda farmaceutica o in un istituto di ricerca, visto che l’avere superato con il massimo dei voti un esame con lo scienziato e fatto la tesi con lui costituisce di per sé una credenziale di sicuro valore. Una volta conseguita la laurea, raggiungeranno tutti obiettivi professionalmente importanti.
E’ attraverso questo sforzo e questo impegno che lo scienziato vanifica tutti gli ostacoli dei quali il mondo accademico, e Girarrosto in particolare, hanno disseminato il suo cammino. Era sicuramente un boccone amaro vedere apparecchiature, nemmeno sballate, dormire lunghi sonni nelle stanze dell’istituto, assistenti o allievi interni girarsi le dita tutto il giorno, o il tecnico Berto Simonini dover passare molti pomeriggi negli scantinati a montare aeromodelli e mettere a punto i loro minuscoli motori a scoppio per il delfino del barone rampante, mentre il caratteristico puzzo della miscela invadeva l’Istituto. Ma ormai aveva fatto l’abitudine a fatti come questi e doveva evitare di farsi paralizzare nella sua attività dall’indignazione.
Non poteva disporre delle pur lacunose apparecchiature dell’Istituto di Fisiologia? E lui si è costruito ed attrezzato un laboratorio con i fiocchi. Si è cercato di stremarlo obbligandolo a fare, non remunerato, un lavoro che sarebbe spettato ad altri, a sobbarcarsi l’onere delle tesi di laurea, a rinunciare all’aiuto di assistenti? Benissimo: e lui ha trasformato i laureandi in validi assistenti e pubblicato sotto forma di tesi i lavori che gli si impediva di presentare. Un sacrificio immenso, una caparbietà mirabile, una forza d’animo superiore a qualsiasi descrizione. Anche se si tratta di cose che si pagano. In termini di intima ed inesprimibile sofferenza, di diffidenza, di mancati sfoghi confidenziali, di indignazioni represse, di rinunce.
Ma a dispetto di tanta perfidia e ostilità, il suo nome è noto e rispettato dovunque, nemmeno scalfito dalle calunnie seminate tra il mondo accademico e l’ambiente medico cittadino. Facile risalire agli autori: si tratta di sprovveduti ma zelanti aspiranti alla cattedra, pronti a cardare velenose battute di tiare d’ateneo e posseduti dal rancore per figuracce accumulate e dalla rabbia per l’istintiva consapevolezza della propria mediocrità.
Il Provveditore agli studi gongola quando lo scienziato accetta l’invito a tenere corsi di aggiornamento agli insegnanti nell’ambito delle “Scienze fisiche e naturali”. I suoi interventi, succedutisi tra il 22 ed il 31 maggio 1962, suscitano un tale interesse ed una tale ammirazione che Luigi si vede costretto a condensare in due libricini gli argomenti trattati. Nonostante l’apparentemente modesto ambito della circostanza, i due scritti costituiscono una testimonianza preziosa, non solo e non tanto di preparazione e chiarezza di idee, quanto di quella visione ampia, unitaria e continuamente correlata, di ogni aspetto dell’uomo e del pragmatismo che ha sempre ispirato la sua attività. Di più: la sua mentalità rigorosamente scientifica non può tollerare il doloso empirismo di tante idee strambe (meglio definirle ideologie) che hanno imperversato e imperversano nel nostro tempo, causa indiretta di deviazioni dal corretto modo di concepire l’attività intellettiva e da criteri didattici razionali. Ad uscirne con le ossa rotte è la concezione attuale della psicologia, che, quando non strettamente coesa ad una impostazione neurofisiologica, si rivela intollerabile ed anacronistico residuo pre-illuministico9.
Nel primo lavoro – “Le basi fisiologiche dell’attività nervosa superiore”, E.P. Modena, 1962 – si passano in rassegna nozioni fondamentali (il neurone, la “legge della polarizzazione dinamica”, le sinapsi, la differenza tra conduzione nervosa e conduzione elettrica, le cellule sensitive e motorie, il riflesso, recettori ed effettori, riflessi incondizionati e condizionati, mielinizzazione ecc.). Difficile o impossibile trovare analoga lucidità espositiva unita alla capacità di estrarre da una materia tanto complessa i principi guida, quelli che occorrerebbe avere sempre presenti. La parte conclusiva si appunta sul processo conoscitivo che, attraverso tutta una serie di processi di associazione, prima elementari, quindi via via più complessi, formano il corredo culturale ed intellettivo di un uomo. E qui, nell’impossibilità di riassumere un linguaggio già essenziale e, soprattutto, di emularne la chiarezza, non ci rimane che citare qualche passo dell’ultima pagina:
Ovviamente non tutta l’attività del sistema nervoso centrale si riduce a condizionamento; è presupposto, come s’è detto, l’esistenza della capacità di condizionare, la quale, oltre che dalla struttura e dall’efficienza funzionale dei substrati nervosi, dipende anche in larga misura da condizioni extranervose: la disponibilità di vitamine e di particolari sostanze, la ricca ossigenazione e l’efficiente smaltimento dell’anidride carbonica prodotta, la presenza di ormoni, ecc. […] Quelle note caratterologiche, che siamo soliti denominare: timidezza, sfrontatezza, irascibilità, insofferenza, apatia, tristezza, euforia, loquacità, mutismo ecc. non sono in rapporto con la capacità di condizionamento; un timido infatti, uno sfrontato, un irascibile, ecc., potrebbero avere indifferentemente uguale o diversa capacità di associazione.
Essenzialmente quindi l’attività nervosa superiore si costruisce col tempo sulla base di un’attitudine congenita preesistente (riflessi incondizionati), caratteristica di ogni specie; essa può avere un particolare colorito caratterologico, il cui meccanismo non è però identificabile con quello della capacità d’apprendimento.
Se un educatore tenesse sempre presenti questi semplici concetti di fisiologia del sistema nervoso, potrebbe forse meglio adeguarsi alle sue delicate mansioni e rendersi conto di tante apparenti anomalie di comportamento dei bambini affidati alle sue cure10.
Il secondo libretto – Equilibri biologici e loro turbamenti – offre non solo un’altra mirabile sintesi di argomenti assai complessi, ma aiuta a comprendere quanto vasta e multiforme debba essere la preparazione indispensabile per una concezione ed una prassi medica moderna e razionale. Il lettore attento comprenderà quanto intimo, tormentoso e profondo sia il percorso intellettivo per decifrare un assetto patologico, quale la impressionante mole di nozioni che occorre evocare e soprattutto correlare e, di conseguenza, come una tale attitudine postuli menti assolutamente superiori. Emerge con evidenza il degrado della medicina contemporanea, la superficialità del suo operare, la sua avvilente mercificazione, il regresso verificatosi negli ultimi decenni.
Lo svolgimento del lavoro parte da un’approfondita trattazione del concetto di equilibrio, sotto il profilo fisico e chimico. Si parla della reazione chimica, del suo equilibrio dinamico, della Legge di azione di massa, per passare quindi alle reazioni endocellulari, alla produzione ed al consumo di energia, alle interazioni con le vitamine e gli enzimi, al concetto di anabolismo e di catabolismo, sino alla descrizione del ruolo di elettroni e di ioni11. Le difficoltà di comprensione per i profani (ma non solo per questi…) vengono sapientemente superate anche grazie alla frequente citazione di esempi e casi concreti. Così accade per il calcio, del quale viene sottolineata la parte biologicamente attiva, quella ionica, descrivendo i sintomi neuro-muscolari susseguenti alla sua disionizzazione od alla sua carenza, od alla mancanza di vitamina D o, ancora, alla insufficiente funzionalità delle paratiroidi. Di esemplare sintesi e chiarezza è poi la trattazione degli scambi mediati dalla membrana cellulare, della continua trasformazione di energia – definita l’essenza della vita – della polarizzazione della stessa membrana, del differenziale di potenziale indotto dalla diversa concentrazione di potassio e sodio ioni, delle membrane semipermeabili e delle dializzanti, degli equilibri osmotici. Il lettore è gradualmente messo in condizione di individuare i cardini della materia e in particolare, dopo avere afferrato la nozione di farmaci depolarizzanti o iperpolarizzanti, di comprendere come le sostanze ganglioplegiche e neuroplegiche incidano sulla polarizzazione di membrana di cellule e fibre nervose o muscolari, alterando gli equilibri ionici fra l’interno e l’esterno della cellula o della fibra. Avendo assorbito questi concetti, è più agevole la comprensione di temi più complicati, ma anche più coinvolgenti, in quanto direttamente connessi con patologie e sintomatologie diffuse: tale il cenno agli equilibri fisiologici interorganici. Si affaccia così la spiegazione della sacca aneurismatica – generata da una tensione della parete vasale inferiore alla pressione sanguigna – o, al contrario, dell’ergotismo. Caratteristica costante della trattazione è il continuo riferimento alla causa, all’aspetto fisico-chimico, e quindi fisiologico, di ogni fenomeno citato; prospettiva di studio e di valutazione sicuramente assai più tormentosa e faticosa di una comoda disamina esclusivamente clinica, ma altrettanto sicuramente preziosa per aprire inaspettati orizzonti, illuminare l’intimo intrico dei perché, collegare con rigorosa razionalità ogni tappa del processo diagnostico e terapeutico. Anche qui ci sembra assai più eloquente citare le righe conclusive del volumetto:
Gli esempi esposti bastano forse a dimostrare che la vita, dai suoi processi elementari nella cellula a quelli integrati interorganici, è essenzialmente un equilibrio; equilibrio di forze, di concentrazioni, di cariche elettriche, ecc., responsabile della struttura delle cellule ed organi cellulari nonché della loro funzione. Questo equilibrio viene momentaneamente rotto nell’eccitamento nervoso di un muscolo o di una cellula, ma si ricostituisce subito. Solo le alterazioni permanenti dell’equilibrio sono incompatibili con la vita. Caratteristiche essenziali di questi equilibri sono: 1) il loro dinamismo 2) la loro impostazione a livelli diversi 3) la loro continua oscillazione entro ristretti limiti. Le malattie si traducono tutte in rottura di equilibri biologici, il cui estremo limite confina con la morte.
Rileggiamo: “Le malattie si traducono tutte in rottura di equilibri biologici, il cui estremo limite confina con la morte”. Questo ultimo inciso molto suggerisce delle impostazioni scientifiche che daranno vita al suo Metodo per la terapia dei tumori. Questo sta rapidamente prendendo forma nella sua mente dopo oltre vent’anni di studio e di ricerca e la pubblicazione di tesi sperimentali.
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Non si deve però credere che Luigi viva isolato dividendosi unicamente tra l’università, il laboratorio e la famiglia. Negli anni ha fatto molte conoscenze e alcune sono evolute in amicizie sincere, per le circostanze più disparate. Mancherebbe un tratto importante dell’uomo se non si facesse almeno un cenno a vicende legate agli amici ed al suo agire nei loro confronti, improntato come sempre a sentimenti di bontà e solidarietà umana. I rapporti con i Montanari sono proseguiti. Dopo la scomparsa di Ruggero, avvenuta nel 1956, tutta la famiglia si rivolge a lui per qualsiasi problema di salute; avendo provato su di sé, come tutti gli amici ed i conoscenti, preferiscono rinunciare a curarsi se non possono usufruire della sua opera di medico. Lo stesso avviene per i Plessi, che nel periodo 1943-45 lo hanno ospitato a Bastiglia e per l’amico Antonio De Carlo, che spesso lo va a trovare all’istituto – con una mano sempre guantata, visto che, come è solito dire, “sono tornato dalla guerra con una zampa in meno” – e si danna per le condizioni nelle quali Luigi è costretto a lavorare. Un altro rapporto molto stretto è quello con la famiglia Arata. Lo scienziato ha curato il padre, illustre grecista, ed è nata negli anni un’amicizia anche con i figli: Amalia, farmacista e Alda, docente di lettere al ginnasio. Luigi prende particolarmente a cuore gli Arata, visto che entrambe le sorelle sono rimaste vedove: il marito di Alda è stato dichiarato disperso nella campagna di Russia, mentre quello di Amalia è mancato, giovane ancora, a causa di un inescusabile errore medico. L’amicizia si comunica a Giuseppe e Adolfo, che frequentano i figli di Amalia e in particolare quelli di Alda, la cui abitazione è ad un centinaio di metri da via Don Minzoni. Altri rapporti confidenziali nascono dalla sua attività di medico, espletata prevalentemente a casa la domenica. Più frequentemente di quanto non avvenisse in via Cucchiari, la domenica pomeriggio salotto e stanza da pranzo sono affollati di pazienti e loro parenti, con limitato entusiasmo di Ciccina, che vorrebbe fossero altre le occasioni per avere Gino a casa, e di Adolfo e Pippo, esiliati per ore nella loro stanza. Alla fine la medesima risposta alla consueta domanda “professore, qual è il suo onorario, quanto le devo?”: “niente. Pensi a curarsi”. Alcuni tornano non solo e non tanto per un controllo del proprio stato di salute, quanto per confidargli le loro preoccupazioni, i problemi familiari e sentire il suo consiglio, sempre lungimirante, astratto dalle emozionalità quanto calato nelle realtà descrittegli e dettato da una profondità d’indagine psicologica che sconvolge gli interessati. La solitudine alla quale lo condannano la sua innocenza di cuore, i fatti della vita e la stessa superiorità d’intelletto e di spirito, viene infranta grazie a questi rapporti umani: non tanto per l’amore che egli riceve, quanto da quello che dà, con poche parole e molti fatti. Troppo profonde sono state le ferite ricevute, troppe volte è stato trafitto slealmente da coloro ai quali ha spalancato le braccia, perché possa accettare uno scambio paritario di affetti. E’ lo stesso amore per il prossimo, oltre all’assenza di malizia, a renderlo vulnerabile, costringendolo a difendersi attraverso una triste e indesiderata solitudine. Amare a distanza, rinunciare a ricevere, e concepire l’amore unicamente come dare: questa la fedele trascrizione di rivelazioni della propria anima fatte ad Adolfo. Il male genera sempre grande dolore e costringe i puri di cuore a dover soffocare gli impulsi d’amore per difendersi dalla cinica bassezza dei più. Reca danno quindi due volte: direttamente con la sua violenza; indirettamente, sottraendo la gioia della non trattenuta spontaneità.
In questo periodo, a parte i laureandi che attendono al lavoro della tesi, via Marianini conosce la presenza costante di un collaboratore, sulla figura del quale vale la pena soffermarsi. Giovanni Conti proviene da Vicenza, dove ha abitato prima che dolorosi eventi familiari lo conducessero a Modena, lontano da un mondo ed un ambiente che gli ricordano quanto possa essere crudele e ingiusta la vita. Si distingue dagli altri studenti per il suo fare impacciato, la laconicità, l’attenzione con la quale segue le lezioni dello scienziato. In sede di esami ha meritato un raro trenta e lode e suscitato l’interesse e l’ammirazione di Luigi, che dopo aver esclamato “mi dispiace di non poterle dare di più”, gli chiede se desidera fare la tesi con lui12. In alcuni tratti gli ricorda infatti la sua giovinezza: povertà, umiltà, incomprensione li uniscono. Giovanni è un uomo di statura più media che bassa, con un’andatura che ricorda quella di Stan Laurel e i radi capelli prematuramente brizzolati: dimostra indubbiamente più dei suoi anni. Vive nel pianoterra d’angolo umido e freddo di un vecchio caseggiato, che si riduce ad un angusto cucinotto, dove la notte si apre una rete per dormire, una stanzetta dove dorme la zia – sorella della madre scomparsa prematuramente – e un bagno lillipuziano, dove si entra abbassando il capo. Nella pur minuscola abitazione sono accatastati, con il maggior ordine possibile, una quantità esorbitante di libri. Quantomeno il canone di locazione è modesto. La zia, che morirà presto, ha un modesto impiego presso uno spedizioniere e quindi si tira avanti con il magro stipendio e l’ancor più magro vaglia che il giovane riceve dal padre: questi ha una posizione sociale ed economica buona, ma sembra soggiogato dalla donna che ha sposato dopo la morte della prima moglie. La povertà si palesa nel vestire e nelle abitudini. Luigi, che non trascura mai di informarsi sulla vita degli allievi e li osserva con attenzione, prende a ben volere quello studente originale, geniale e un po’ attempato rispetto alla media dei laureandi. Disegnatore di una finezza più unica che rara e dotato di un’intelligenza assolutamente fuori dell’ordinario, Giovanni si rivelerà collaboratore prezioso, tra i pochi, o pochissimi in grado di comprendere l’importanza delle ricerche dello scienziato, del quale esegue le direttive con fedeltà e acume, fornendo un valido contributo al lavoro sperimentale che sfocerà, di lì a qualche anno, nella formulazione delle basi scientifiche del Metodo. Due delle stanze del laboratorio ospitano alcune decine di gabbie, su più ripiani, abitate da ratti bianchi – i famosi ratti Wistar – e dalle loro copiose nidiate, che evitano continui onerosi acquisti dagli allevatori. La giornata di Giovanni inizia proprio rigovernando i ratti e preparando, quando in programma, il tavolo operatorio per il pomeriggio. Con il suo innato senso dell’umorismo e un’ironia troppo fine per essere colta dai più, il laureando vicentino battezza le femmine più prolifiche con il nome di procaci dive del momento, delle quali ammira le qualità estetiche. A volte lo scienziato, arrivando silenziosamente di sera dopo gli impegni universitari, lo coglie mentre osserva con un sorriso i topini nati – simili a rosei porcellini in miniatura – e parla da solo, o rimprovera le varie …Brigitte, Lollo, Sofia, Marylin, che si sottraggono il cibo a vicenda. Quando viene a sapere nei particolari quali siano le privazioni nelle quali vive il collaboratore, si ingegna in ogni modo per aiutarlo: tanto per cominciare, la domenica Giovanni diviene gradito ospite fisso in via Don Minzoni, dove trova nell’amicizia di Adolfo e Giuseppe e soprattutto nell’affetto materno di Ciccina un poco di quel calore familiare che così presto gli è stato tolto. Ciccina, sapendo da Gino dell’originale modo con cui il giovane si rapporta con i ratti, lo battezza con un nomignolo siciliano, “cumpari surici” (compare sorcio). Poi, pur non navigando nell’oro, gli corrisponde un piccolo mensile e quando un giorno, vedendolo arrivare tutto intirizzito, viene a sapere che non ha di che scaldarsi in casa, lascia passare ben poco tempo. La domenica successiva, aiutato da Adolfo, carica sulla Bianchina la pesante stufetta color nocciola che riscaldava la stanza da pranzo di via Cucchiari, insieme ai tubi che ha comprato e ad una scorta di mattonelle di antracite: padre e figlio montano la stufa, collegano i tubi, e finalmente un po’ di tepore scalda e asciuga l’umida stanzetta, dove, morta nel frattempo la zia, dorme Giovanni.
Nelle festività, specie quelle natalizie, cumpari surici è ospite fisso. La fresca cordialità di Ciccina e la particolare atmosfera che si respira in casa fanno di quei giorni un’esperienza di poesia vissuta, più che un ricordo indorato dalla nostalgia. In un angolo del salotto troneggia un abete maestoso, che non di rado occorre scorciare un poco perché la punta non urti il soffitto. Inchiodato al suo supporto di legno, emana quel profumo di resina che più di mille parole evoca la magia del Natale e sembra quasi sorridere con pazienza mentre Adolfo e Pippo lo ricoprono di festoni d’argento e colorati, solleticano i suoi rami con la fantasmagoria delle luci, li gravano di palline luccicanti. Occorre buona parte del pomeriggio per completare l’opera, vista l’abbondanza di paramenti sempre gelosamente conservati ed incrementati negli anni, ma alla fine l’abete è diventato da pianta persona: anzi, il personaggio più importante della casa, che esercita una misteriosa forza di attrazione, visto che ora l’uno ora l’altro componente della famiglia si trovano loro malgrado a rimirarlo. Fin dalla settimana che precede la Vigilia è tutto uno squillare di campanello, con i postini che portano pacchi provenienti da ogni dove, commessi che salgono le scale col viso nascosto da imponenti confezioni natalizie spedite da alcuni dei tanti visitati a onorario zero.
La sera della Vigilia tutto sembra svolgersi obbedendo ad un tacito rituale, come in una reggia dove tutti si sentono re e regine ed ogni minuto sembra un fuoco d’artificio di sempre rinnovata e varia poesia. Se il primo piatto – tortellini – è un omaggio alla tradizione locale, la pietanza varia dal pesce spada, spedito da Citta, alle frittelle di baccalà secondo l’inimitabile ricetta della padrona di casa, alle focacce ed ai pitoni siciliani13. Quando più tardi giungono gli ospiti, dopo qualche fetta di panettone e un tazza della squisita cioccolata calda preparata da Ciccina, Luigi non disdegna di unirsi alle briscole od alle scope e nemmeno al gioco “dell’asino”, dove famigerate e tacite trame mirano a far rimanere Adolfo con l’ultima infamante carta del cavallo. Ride, come è suo costume, fino alle lacrime mentre assiste ai concitati scarti del figlio minore. Tra il profumo emanato dall’abete, l’aroma di caffè e cioccolata che vi si confonde, le multicolori stelle delle luci dell’albero che brillano intermittenti, il colore verdino e rosato che illumina il salotto e la stanza da pranzo, si parla serenamente seduti alla tavola ancora imbandita di carte da gioco. Lo scienziato affronta tanti temi di conversazione, alcuni ameni, altri fonte di riflessione, mentre tutti lo ascoltano incantati. Sfilano evocazioni di lontani giorni della sua infanzia, considerazioni su eventi storici, episodi curiosi di vita universitaria, per lo più riguardanti esami di studenti. Fare gli esami con il Prof. Di Bella – apriamo una parentesi su questo tema – provocava sistematicamente notti insonni agli studenti. Non c’era verso: bisognava sapere e, soprattutto, ragionare. Si rendeva sempre conto dell’ansietà e dell’agitazione dell’esaminando, cercava di metterlo a suo agio e di rassicurarlo, ripeteva pazientemente la domanda aiutando lo studente confuso ad orientarsi, ma con lui avevano vita difficile sia i secchioni che gli svogliati. Non si formalizzava per un particolare dimenticato, ma era intransigente se coglieva mancanze di rilievo o negligenze. Una studentessa, preparata quanto perspicace, ha raccontato all’autore di questo libro il suo esame con il fisiologo, utile per comprendere cosa questi volesse dai suoi studenti. Dopo risposte brillanti a domande sempre più approfondite, arriva un quesito al quale l’esaminanda non sa rispondere. Luigi l’aiuta, dandole gli spunti utili per trovare la risposta. La studentessa ha un’illuminazione e risponde rifacendosi a fenomeni strettamente apparentati a quello oggetto della domanda. A questo punto il suo esaminatore, con un largo sorriso le dice: “no, non è così, perché in questo caso abbiamo una eccezione alla regola, ma lei ha inquadrato con proprietà il fenomeno. Le do trenta per quello che mi ha detto finora e la lode per l’errore che ha commesso, perché è un errore che dimostra come lei ragioni bene!”.
Vita difficile avevano invece i pochi, temerari raccomandati, essendo notorio che una…spinta sarebbe stata controproducente, con un docente simile. Un caso, che potremmo definire estremo, lo riferisce Vigildo Ferrari, a proposito di un ministro che aveva indirizzato a Luigi una lettera di raccomandazione per il proprio nipote. Luigi parlando con l’ex allievo sbotta: “Non si fa così, non può un ministro arrivare a raccomandare una persona”. Lo studente in questione verrà bocciato, in quanto si dimostra incapace di calcolare i decimali in un problema relativo alla conta dei globuli rossi. “Vede Ferrari” – continua Luigi – “a promuovere gente che non ragiona, si fa solo del male; se almeno uno ragiona, un giorno potrà imparare”.
Un episodio gustoso, raccontato dallo stesso scienziato la sera di quella Vigilia, si riferisce al rampollo di una celeberrima famiglia di ristoratori modenesi, che si era iscritto alla facoltà di medicina senza alcun trasporto, unicamente per accontentare il padre. Fino a quel momento lo studente era riuscito a superare diversi esami in qualche modo, e raramente al primo tentativo, negli oltre dieci anni di corso, sicuramente aiutato dalla notorietà della famiglia. Non che fosse uno sciocco, ma di voglia di studiare ne aveva avuta sempre poca. Il nome e l’impressionante serie di “tonfi” all’esame di fisiologia non commuovono certo il docente, che gli aveva detto semplicemente: “se lei non sa io la boccio”.
All’ennesimo tentativo Luigi, vedendolo avanzarsi con il libretto in mano, non può trattenere un sorriso:
“Ha studiato questa volta?”
“Eccome professore”.
“Bene, si accomodi”.
Basta qualche minuto perché l’inveterato ripetente tracci un quadro della fisiologia incompatibile con l’armonia del creato. Il docente lo interrompe con un gesto perentorio della mano ed un breve scuoter di capo. Poi inizia pensoso a passarsi la mano tra i capelli candidi e d’un tratto:
“Ma lei perché si è iscritto in medicina?”
“Per fare contento mio padre”
“Non avrà mica intenzione di fare il medico?”
“Professore, scherza? Non ci penso proprio!”.
“Sicuro sicuro?”
“Assolutamente! E’ mio padre che ha sempre avuto il pallino del figlio laureato”.
Luigi si passa ancora la mano nei capelli, e:
“Bene, si alzi in piedi. No…..non guardi me, si volti verso i suoi colleghi. Ecco. Ora alzi una mano e giuri che non farà mai il medico!”.
“Lo giuro, lo giuro!”
“Diciotto! Vada, e ricordi la promessa!”.
Possiamo testimoniare che lo studente avrebbe tenuto fede al giuramento. Solo una volta il benevolo docente si sarebbe pentito della sua clemenza: quando l’ex alunno, ormai affermato imprenditore gastronomico, affermò in un’intervista che …lo zampone non danneggia in alcun modo il fegato.
Dopo la mezzanotte e lo spumante (rigorosamente italiano e amabile) del quale Luigi beve solo un sorso, essendo astemio, ad uno ad uno gli ospiti salutano e tornano a casa. Il tempo di abbassare le serrande, un ultimo sguardo ai fiocchi di neve che planano come semi, gelati e pur caldi, spegnere le luci e le candeline dell’albero: ed i sogni della notte si sostituiscono tra le fusa dei termosifoni al sogno vivo appena concluso.
1. Film documentario (9 parti + 3 Addendum). Produttore esecutivo: VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich – Distributore esclusivo: VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich. Interamente finanziato dal VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich, senza alcuna tipologia di agevolazione e senza alcun utilizzo di fondi speciali e/o sovvenzioni europee.- Anno di produzione: 2017 – Produced by VFF Mare Nostrum Films Productions. Tutti i diritti riservati VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich © 2017 – Documentary Film Division – Österreich.
2. Leggere a tal proposito Carcò Paolo dal Dizionario Biografico della Treccani.
3. In quegli anni lo scienziato porta a temine ricerche che si riveleranno fondamentali per la formulazione di metodologie terapeutiche di gravi affezioni neurologiche. Particolare interesse riveste il lavoro “Terapie delle malattie del S.N.C. con acido glutammico e vitamine idrosolubili”.
4. Citiamo solo alcuni dei tanti lavori pubblicati. Nel 1954: azione combinata di acido nicotinico ed emetina, azione dell’α-α’-dipiridile su alcuni substrati muscolari, interferenza fra emetina ed acido ascorbico. Nel 1955: un libro sulle anomalie della secrezione salivare, oltre a lavori sulle parotiti acute secondarie, le influenze dell’α-α’-dipiridile sulle curve glicemiche, su misurazioni dell’oro-faringe in vivo, osservazioni sul faringe di giovani sordomute. Nel 1956: studi sulla permeabilità della placenta a farmaci parasimpaticotropi, ad amine piogene (tiratina e triptamina), eziopatogenesi dell’emesis ed hyperemesis gravidarum, un libro sulle esofagiti, lavori sull’influenza di alcuni aminoacidi sull’azione emetica dell’emetina associata alla piridossina, su fattori nervosi ed umorali nella patogenesi dell’embolia polmonare. Nel 1958 un lavoro su disturbi neuro-vegetativi e orecchio, sulla copertina del quale abbiamo ritrovato un biglietto autografo firmato dall’autore ufficiale, il quale lealmente scrive: “Al mio vero Maestro, con affetto e gratitudine e soprattutto con l’animo semplice di chi dà a Cesare …quel che è di Cesare!”.
5. Oltre 200 le tesi di laurea raccolte nel laboratorio di via Marianini. Il paziente lavoro di archiviazione è stato svolto da Paola e Daniela Bertani, dell’Aian Modena, nel 2007.
6. Analisi ottica della tecnica e dell’interpretazione dell’oftalmotonometria. Ann. Oftalm. E Clin. Ocul., 196°, 11, 531-538.
7. Il feldmaresciallo Franz Conrad von Hotzendorf (1852+1925) fu Capo di Stato Maggiore delle armate austro-ungariche durante il primo conflitto mondiale.
8. La 5-ossitriptamina nella patogenesi dell’embolia polmonare (1957); La crescita quale fenomeno bioritmico, metabolico e di correlazione neuroumorale (1959); Azione delle radiazioni sul sistema nervoso centrale e periferico (1960); Influenza dell’ipofisi sul quadro morfologico ed elettroforetico del sangue (1961); Substrati nervosi integratori della crescita (1962).
9. Molto eloquente è la citazione, tra la nutrita bibliografia di un lavoro del suo Maestro: Tullio P., I riflessi orientativi nello studio delle attività mentali, 1938, Zanichelli, Bologna.
10. Nostra sottolineatura.
11. Molto eloquente risulta essere, in tale contesto, la citazione del caso di Swante Arrhenius. Lo scienziato dimostrò che alcune sostanze, disciolte in acqua, si dissociano in ioni. Tale dimostrazione, che costituiva l’oggetto della sua tesi di laurea, gli costò la bocciatura.
12. Il titolo della tesi di G. Conti, risalente al 1962, è assai eloquente e dimostra quale fosse il percorso scientifico dello scienziato: “Substrati nervosi integratori della crescita”.
13. Sono una varietà di calzoni, o panzerotti che dir si voglia.