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Capitolo IV – L’inizio del volo
“Credo che se si guardasse sempre il cielo, finiremmo per avere le ali” (Flaubert, Pensèes).
Laurea non è sinonimo di indipendenza economica. Ma la soddisfazione è tanta. Ha vinto povertà, incomprensione, invidia, e l’idea che certe volte gli frullava per il capo, d’esser nato sotto cattiva stella, si è ormai dissolta. Ciccina è fiera di lui, i Costa gli fanno festa, papà Giuseppe e mamma Carmela gongolano per quell’ultimo figliolo diventato medico e più volte premiato. Cosa non rara nelle biografie di grandi uomini: la percezione di trovarsi di fronte ad un uomo eccezionale e destinato a passare alla storia ha accomunato chiunque lo abbia conosciuto, indipendentemente dal livello culturale: a dispetto della sua modestia e della propensione all’anti-esibizionismo.
Il fidanzamento ufficiale é la tappa successiva, che evita certi espedienti …umilianti ed un po’ ridicoli. Peppino, l’improbabile mastino dal cuore d’oro, è tra i più felici. A lui Luigi dà lezioni di matematica, come farà anche con Tonuccio. In quel periodo Giuseppe e Carmela Di Bella fanno spesso visita ai Costa: Carmela li incanta per la sua immediatezza, mentre Giuseppe mostra una verve straordinaria e con le sue freddure e lo spiccatissimo senso dell’umorismo provoca l’ilarità dei presenti, anche dei più seriosi e compassati. In qualche occasione si balla anche, nel salotto di casa Costa, al suono del mandolino di Luigi accompagnato dalla chitarra di Adolfo Runci, mentre Giuseppe Di Bella comanda in francese le varie fasi delle complicate danze allora di moda.
Ma l’estate avanza e porta con sé anche progetti e programmi. Luigi si è già aggiudicato l’ennesimo premio annuale di cinquemila lire, mentre era ancora a Bari. Subito dopo concorre per una prestigiosa borsa di studio presso l’Università di Pisa: si tratta della Borsa di studio “G. B. Queirolo”1. Come si legge nella lettera ufficiale di conferimento2, Luigi dovrebbe lavorare a Pisa presso la Clinica Medica universitaria per un anno; godrebbe di alloggio gratuito e riceverebbe un assegno di lire 3.600 lorde, a rate mensili. Successivamente l’incarico potrebbe essere rinnovato. Ma rinuncerà, giustificando la decisione – probabilmente suggerita da Tullio – “per non abbandonare gli studi prediletti di Fisiologia e Chimica Biologica”. D’altronde non si trattava soltanto di un giovane medico brillante, ma di un medico e di un ricercatore che nell’ambiente universitario e scientifico era già noto in tutta Italia: accettare avrebbe comportato un periodo di stasi nella sua carriera e, sotto il profilo strettamente medico, nulla avrebbe aggiunto. Per il momento svolge un lavoro per incarico del Prof. Luigi Ferrarini, del quale ha revisionato qualche tempo prima il trattato di semeiotica medica: si tratta di redigere le statistiche relative ai malati cancerosi di Bari. La remunerazione, 250 lire al mese, è quella che è, ma l’impegno non è vincolante e d’altra parte la cosa lo trova molto interessato; ma ha appena iniziato a porvi mano che Tullio gli comunica di avere accettato la cattedra di Fisiologia a Parma e gli chiede di seguirlo. L’allievo accetta, consegue l’abilitazione all’esercizio della professione medica ed il 29 ottobre prende servizio con la qualifica di Aiuto incaricato all’Istituto di Fisiologia della locale università, con lo stipendio iniziale di settecento lire al mese. Arriva con il primo dei tre attestati che il grande friulano gli rilascerà.
Val la pena leggere alcune righe:
“ […] ha portato a termine quattro pubblicazioni da solo, sette in mia collaborazione, mi ha coadiuvato nella preparazione di altre trenta pubblicazioni che vertono sopra tutti i campi della fisiologia, mostrando una capacità tecnica sperimentale di gran lunga superiore a tutti gli allievi che ho avuto finora”
A ventiquattr’anni è laureato col massimo dei voti e lode, dopo aver fatto dodici esami in più di quelli prescritti e con la tesi giudicata degna di pubblicazione; é già abilitato; docente universitario; può esibire un medagliere di concorsi nazionali vinti e dieci lavori pubblicati (il primo ancora diciannovenne) con il suo nome abbinato a quello del più grande fisiologo vivente, due volte candidato al premio Nobel. E allora, visto che abbiamo parlato di Nobel, bisognerebbe conferirne oggi altri due di stoltezza a chi sessant’anni dopo lo accuserà di mancare di …rigore scientifico! C’è una venatura di genialità nella rabbiosa, ineducata e ottusa faziosità che sessant’anni dopo avrebbe investito lo scienziato anziano, dato che l’imbecille talentuoso può arrivare ad un’anti-intelligenza sconosciuta agli imbecilli comuni e tanto eccezionale da sfiorare il geniale3. Anche la stupidità ha i suoi immortali.
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Parma piace subito al giovane docente. Il Duomo, il Battistero, il Palazzo della Pilotta, il Palazzo Ducale, gli affreschi del Correggio, l’omonimo torrente che l’attraversa, il ricordo della corte di Maria Luigia, sogni e passioni della Chartreuse di Stendhal, e poi Verdi, l’adorato Verdi, il Teatro Regio: visioni ed evocazioni che caratterizzano la città di sangue blu, la città più signorile di un’Emilia contadina.
Tullio si sente quasi a casa sua e gongola per il programma dei concerti. Il prestigioso teatro lo vedrà spettatore assiduo, seppure caratterizzato dalle sue abituali distrazioni, come quella di recarsi a concerto vestito con un impeccabile abito da sera, ma con le falde del camice bianco che fanno capolino sotto la giacca. Anche i parmensi si abitueranno alle originalità dello scienziato. Una volta, dopo aver ordinato affettato di crudo, si immerge nella lettura di un libro scientifico aperto nel bel mezzo della tavola. Dopo qualche tempo protesta fieramente con il cameriere perché il salume ordinato non gli è stato ancora servito: è con imbarazzo che il povero cameriere gli fa notare come ne abbia utilizzato le fette a mo’ di segnalibri tra le pagine del libro. Ricorre spesso, nelle lettere di quel periodo, anche il nome di un fedele bidello dell’Istituto, Ismaele, loggionista abituale, che all’indomani di rappresentazioni liriche commenta le esecuzioni alle quali ha assistito con una proprietà ed acutezza di giudizio ignote alla maggior parte dei critici musicali. C’é poco da discutere: filamenti di musicalità del genio di Busseto sono ancora vivi tra i suoi conterranei.
Luigi scrive spesso a Ciccina, riempiendo il breve spazio bianco delle cartoline con la sua calligrafia minuta: le racconta dell’attività quotidiana, dei rapporti con Tullio, dell’attività e dello studio continui, dei colleghi. Ora bisogna pensare a risparmiare per mettere su casa, una volta che si apriranno prospettive di carriera a Parma stessa o in un’altra città. Continua anche l’attività di ricerca, testimoniata dai tre nuovi lavori pubblicati nel 19374. Sul primo di questi è bene soffermarsi. Si tratta dell’ulteriore approfondimento degli esperimenti citati nel lavoro con il quale aveva vinto il premio Littorio del 1935. Ma c’è di più, molto di più. La ricerca che sfocia in questa pubblicazione, altro non è che il frutto di una collaborazione – aggiungiamo, a senso unico – richiestagli dal Centro Chimico Militare. Un “pezzo grosso” dell’ambiente militare cercherà poi di attribuirsene i meriti, ma senza successo: le capacità dello studioso sono già state notate da uno scienziato dal fiuto lungo, Guglielmo Marconi, che lo vorrebbe al C.N.R., di cui è Presidente. Chiunque accorrerebbe gambe in spalla: non Luigi Di Bella, che si sente totalmente votato alla scienza medica e comunica rispettosamente questa sua determinazione. Ma il contributo fornito è già tanto prezioso, che Marconi – al quale rimangono soltanto pochi mesi di vita5 – gli concederà, a nome del C.N.R., una borsa di studio. La stima e la considerazione del premio Nobel lo lusingano, ma non cambiano il suo modo di agire: ben pochi sapranno dell’importantissimo evento, che verrà conosciuto dalla nostra famiglia solo dopo la sua scomparsa, nel corso della consultazione di documenti destinati a questo libro. Tullio contatta Marconi, al quale il nome di Luigi è già noto, gli illustra il valore dell’allievo e sottolinea l’importanza delle sue ricerche. Il premio Nobel chiede allora che sia lo stesso Luigi Di Bella a scrivere una relazione dettagliata. Tullio sollecita l’ex allievo a provvedere e, quando è stata completata, la allega ad una propria missiva del 29 dicembre 1936. In una lettera autografa del segretario, redatta su carta intestata (“Ufficio Marconi, via dei Condotti, 11, Roma”), datata 7 gennaio 1937 e indirizzata allo stesso Tullio, si parla “dell’interessante relazione del Dott. L. Di Bella”, preannunciando futuri e diretti contatti da parte dello stesso Marconi, al momento fuori Roma.
Luigi intanto comincia a familiarizzare con usi e costumi dell’Emilia, va a cenare in qualche trattoria dove servono squisite lasagne verdi e tagliatelle al ragù e non infrequentemente è ospite del Prof. Tullio. In casa dell’eccentrico Pietro nulla è cambiato, dagli alterchi con la legnosa Paolina ai riti collerici che precedono la partenza per cerimonie ufficiali o, peggio, verso le residenze stagionali dei Reali. La poesia degli affetti avvolge spesso i colloqui tra il cattedratico ed il giovane allievo. Tullio sa bene cosa siano le brighe e le manovre del mondo accademico, delle quali ha un profondo disgusto; conosce bene la falsità e la doppiezza dell’uomo e prova un grande conforto nel trovare purezza d’animo e verità non solo nelle opere di Goethe, Schiller, Hölderlin, Novalis, o nelle armonie di Haendel e Mozart, ma anche nella virile e profonda sincerità del giovane siciliano. Pian piano l’ammirazione per lui si trasforma in devozione, venata di un commovente sentimento che altro non può definirsi che paterno: pur con tutte le sue mattane. Anche Luigi si appassiona per la letteratura tedesca e da divoratore di libri qual’è, legge in lingua originale le Affinità Elettive – che considera tra gli apici del genio umano – ed il Faust di Goethe, Wallenstein di Schiller, Titan e La loggia invisibile di J. Paul Richter, Il povero musicante di Grillparzer, La nascita della tragedia, Così parlò Zarathustra e Umano, troppo umano di Nietzsche, e Kant, del quale ammira particolarmente la “Critica della ragion pura”. Inizia proprio allora l’abitudine di acquistare libri usati presso negozietti polverosi e di leggerli di sera tardi, quando è già a letto. Una delle sue doti è l’attitudine straordinaria di utilizzare al meglio ogni scampolo di tempo, con una perfetta organizzazione di attività. Un segreto che riesce a decifrare soltanto chi gli vive accanto e osserva le sue abitudini: si tratta della capacità innata di operare una graduatoria tra le cose da fare, cogliere il significato di ciò che conta senza farsi dirottare dal complementare o dall’inutile, distinguere dai vicoli ciechi le strade con uno sbocco, distribuire gli impegni secondo criteri squisitamente logici, collocando i più brigosi nelle ore di maggior rendimento ed i più semplici ad inizio giornata, quando “ci si deve ancora avviare”, o a tarda sera. Piccoli accorgimenti gli consentono poi di tesaurizzare il tempo: tra questi, ad esempio, il raggruppare le attività programmate in modo omogeneo, così da evitare di dover scompigliare e riordinare più volte le stesse cose, facendolo alla fine ed una volta per tutte. Si tratta di mentalità, di istintiva attitudine, sviluppate in anni di autodisciplina e governate da una potenza di volizione d’acciaio. Mentre cura la sua igiene personale, si lucida le scarpe, cucina, si fa il letto, cammina per strada, riordina le idee, pensa alle possibili soluzioni ad un problema che gli si è affacciato alla mente, ai perché di un difficile quesito scientifico: ed a volte proprio nel corso di queste umili incombenze troverà la soluzione cercata. Non si spiegherebbero altrimenti l’attività incredibile e la mole di lavoro svolti nella sua vita, indirettamente ma eloquentemente desumibili esaminando – fra l’altro – le migliaia di pagine di appunti e annotazioni nel corso di attività sperimentali, o i chilometrici tracciati su carta inscurita al nero-fumo (ancora conservati nell’archivio del suo laboratorio).
Viene in mente quello che una volta disse ad un amico Johannes Brahms: “I miei migliori Lieder li composi di buon mattino, mentre mi lucidavo le scarpe”. Vive quel periodo in una serena tristezza, si può dire. La serenità deriva dal fare e l’avere sempre fatto il proprio dovere, dalla percezione del vigore fisico dell’età, dalla volontà di potenza espressa da su una mente che, come purosangue alla fresca aria del mattino, freme per lanciarsi in un lungo galoppo; la tristezza, dalla lontananza da Ciccina, dai suoi cari, dall’amata terra, dall’incomprensione prevalente dei suoi. Prova ammirazione per la gente emiliana, soprattutto per la laboriosità, la serietà, il rispetto degli impegni presi ed un fare più asciutto di quello meridionale. Non l’ha mai detto esplicitamente, ma credo concorderebbe sull’affermazione che la sua gente sarebbe migliore se passasse una parte della vita lontana da casa, prima di ritornarvi.
Le sue lezioni sono sempre più affollate e gli studenti si abituano presto a quel docente che raramente termina le lezioni allo scoccare dell’ora, pretende ragionino e capiscano quello che dicono, chiede sempre “perché”. Scriverà un libro di chimica biologica (ne faremo cenno più avanti), aiutandosi con le dispense predisposte per gli allievi: non ne aveva mai parlato, ed a noi è capitato di trovarlo dopo che aveva abbandonato il sepolcro della vita. Nel secondo attestato rilasciato il 14 luglio 1937 da Tullio, che a Parma è anche preside della Facoltà di Medicina, leggiamo:
“ […] durante l’anno accademico in corso, avendo io altri due incarichi da espletare, il Di Bella mi ha sostituito quasi completamente nel corso di Chimica Biologica per gli studenti di Medicina, che ha svolto esaurientemente e in modo lodevole. In considerazione di ciò la Facoltà unanime l’ha proposto per l’incarico dell’insegnamento della Chimica Biologica per l’anno accademico 1937-38. Data la solida preparazione scientifica del Di Bella e la sua instancabile attività, come risulta dalle numerose pubblicazioni fatte, dati i suoi meriti, che gli hanno procurato già ben quattro importanti premi, non credo di aggiungere altre parole”.
I fratelli di Luigi hanno intanto trovato la loro strada nella vita ed alcuni si sono già formati una famiglia. Filippo avrà sempre una vita costellata da momenti di benessere e serenità e da altri più sfortunati, in sintonia con un’indole contraddittoria e poco equilibrata; Giovannino si sposerà ed avrà due figlie, entrambe destinate ad una vita infelice a causa di gravi problemi di salute che le tormenteranno sin dall’infanzia; Vittorio si è laureato in chimica e si stabilisce a Milano, dove si sposerà, avrà anch’egli due bambine, Carmen ed Elena e si affermerà professionalmente. Quanto alle sorelle, tranne Ciccina si sposeranno tutte: Annetta ha già due figli, Ciccio e Pippo; anche Concettina, che diplomatasi maestra è andata a vivere vicino Milano, ne ha due; Filomena vivrà a New York, dopo aver sposato un italo-americano, mentre Maddalena, anch’essa maestra, rimane a Messina insieme a Maria che si è fidanzata con Peppino Costa. Il cognome Di Bella si trasmetterà solo ai figli di Luigi, Giuseppe e Adolfo.
Non ci è giunta, salvo alcune cartoline postali, la corrispondenza intercorsa tra lo scienziato e la fidanzata tra la fine del 1937 e l’anno 1938. Numerose invece le lettere dei fratelli e delle sorelle, ma, con poche eccezioni, si tratta sempre di richieste dei più svariati generi, più o meno gravose e impegnative, e più o meno abilmente mimetizzate da informazioni sulla vita loro e dei genitori. Cosa peraltro utile a comprendere l’amarezza dell’uomo e lo scetticismo con il quale considererà le dichiarazioni di affetto ed amicizia delle quali sarà destinatario in futuro. Filippo rimane la fonte dei dispiaceri più acuti. Ha contratto un matrimonio infelice e non è stato risparmiato dal grande dolore della perdita di una figlia, morta ancora neonata, ma nel suo caso la sofferenza sembra non essere stata maestra di vita: si sente investito e titillato da un compito di guida ed indirizzo della famiglia, che gli fa travalicare ogni limite e perdere il senso della realtà. Un biglietto del novembre 1937, probabile risposta del giovane docente ad una missiva insolente, fa comprendere molte più cose di un lungo discorso:
“Ti compatisco per le tue insensate parole ed i tuoi stolti atti, perché sei incosciente di quel che dici e quel che fai. Chiudo con la presente i nostri rapporti per riprenderli, se del caso, solo quando incomincerai ad acquistare quel minimum di ragione che esigo da coloro che si onorano della mia confidenza”.
Una lettera di Giovannino del 20 novembre comincia a gettare luce sull’oggetto della discordia:
“ […] ho voluto prima dare una solenne stoccata al mio simpatico fratello maggiore Filippo. Nella circostanza ho bollato Ciccina e Maddalena…..Come vedi, Gino, aspettavo l’ora della riscossa…spero di mettere anch’io qualcuno a posto che aveva alzato un po’ troppo la testa……quanto a Ciccina (si tratta di Ciccina Di Bella) credo poco alle sue chiacchiere. Filippo non ha avuto finora il coraggio di rispondere alla mia lettera. Io però ho voluto inviargli un bel foglietto, riferendomi alla sua circolare a stampa, a te indirizzata ed inviata a tutti i membri della famiglia per conoscenza”.
Già: lo stile di Filippo emerge. Non scriveva lettere, ma editti battuti a macchina, quasi fosse un sovrano. Si può sorridere per queste banalità, ma si è trattato di cose che hanno portato con sé molto dolore, ferito la delicata sensibilità di Luigi, lasciato un’orma sul suo carattere. Giovannino sfoga il suo sdegno, e delinea la disputa, la cui assurdità può comprendere appieno forse solo chi abbia vissuto in ambienti dominati da un clima di oscurantismo sociale. In sostanza, affiora quale sia considerato il compito ed il dovere di Gino: dare, dare e ancora dare – e senza discutere – per scontare la…colpa di essersi fatto strada nella vita ed aver preteso affrancarsi da un mondo neofeudale ed anacronistico. Ha studiato? Niente da dire, ma deve risarcire la famiglia, Moloch al quale immolare ogni aspirazione ed autonomia individuale. Ha lavorato e beneficato i fratelli? Semplice dovere in un mondo che, con un neologismo improvvisato, potremmo chiamare “fratriarcale”: alle sue regole deve conformare anche i programmi per il futuro, primo tra i quali il matrimonio con la sua Ciccina. “ […] Siccome tu eri il più piccolo e …non avevi fatto nulla per la famiglia (sic), non dovevi sposare”, continua Giovannino, che gli raccomanda di non transigere, ricorda quanto Gino si sia sacrificato per tutti, rievoca la “dolce vita” di Filippo nei periodi nei quali conseguiva redditi soddisfacenti e conclude con espressioni che non avranno mancato di commuovere lo scienziato: “Ricordati che ti sono sempre vicino e mi scaglierò contro chiunque attentasse alla tua tranquillità, contro chiunque tenti di calunniarti ed inventare bugìe”.
Una successiva di Giovannino ci informa che il dissidio intervenuto permane, anche se apparentemente meno velenoso di prima. Luigi gli ha spedito un pacco con diversi regali, e lui: “ […] ti sei troppo incomodato, caro Gino, ed io non avrei voluto ciò, perché nulla è possibile fare per te senza che tu raddoppi quello che eventualmente ricevi”. E’ sottufficiale dei carabinieri a Francavilla Fontana ed ha chiesto l’autorizzazione a sposarsi. Di lì a poco, emerge una nuova idea balzana: Luigi e Ciccina, Peppino Costa e Maria debbono celebrare il matrimonio contemporaneamente. Questo il diktat di Filippo. Insieme alla descrizione di queste sciocchezze, emerge però un accenno preoccupante alla salute di mamma Carmela, che comincia ad accusare malesseri, legati alla sua angina. La lettera si conclude con un augurio, che però riempie di amarezza al pensiero della grettezza e del malanimo con i quali è corrisposto Luigi: “Cerca di guardarti bene la salute, di non dare eccessiva importanza a tutto quello che potrebbero combinare le nostre sorelle, fratelli ecc. e soprattutto mira a portarti avanti, perché è l’unica risposta che potrai dare a tutti quelli che fanno voti per una cattiva riuscita dei tuoi studi e dei tuoi sacrifici”. La situazione incresciosa, invece di placarsi di fronte alla lampante assurdità delle pretese, si complica ulteriormente non appena Filippo “intima” a Giovanni Costa di fissare senza indugio il doppio sposalizio. La sua sprovvedutezza non potrebbe farlo capitare in un momento più sbagliato. Peppino si è laureato in farmacia e lavora accanto al padre Giovanni, ma la situazione economica della famiglia, già provata dalla necessità di aiutare un parente in cattive acque, attraversa un periodo critico. Una nuova farmacia è stata aperta vicino alla Farmacia del Popolo, dopo un poco chiaro iter burocratico: per giunta il concorrente applica sconti non regolamentari sui farmaci, facendo accorrere una moltitudine che di soldi da spendere ne ha veramente pochi. Giovanni Costa arriva a trovarsi in difficoltà anche a pagare le imposte. Il problema troverà poi soluzione, quando Peppino si attiverà e farà emergere una serie di gravi irregolarità che porteranno ad un’inchiesta ed alla destituzione di funzionari comunali corrotti; ma per il momento non sono disponibili risorse per mettere su casa. Non è poi un gran male, visto che Peppino e Maria sono fidanzati da meno di tre anni. Ma Filippo insiste ed usa espressioni talmente arroganti, prive di tatto ed offensive nei confronti dei Costa, che Peppino, già infastidito dal continuo cicaleggio delle cognate in pectore, perplesso per un’incompatibilità di carattere con la fidanzata che emerge ogni giorno più chiara e indignato da quello che gli pare un cappio che gli si vuol stringere al collo, reagisce male e rompe il fidanzamento. Apriti cielo! Filippo stende la sua ennesima circolare alla famiglia e lancia un ultimatum: o nozze a quattro, ed alla svelta, oppure Gino deve lasciare Ciccina. Gino, informato dell’ultimatum, non perde tempo a sottolinearne l’assurdità, ma scrive che lo lascino in pace e diffida chiunque dall’intromettersi nel rapporto tra lui e Ciccina. La reazione alla sua reazione inizia con una lettera a quattro mani, del maggio 1938, scritta da due sorelle, ed impregnata di falsa e didascalica indignazione: “ […] fino a quando rinsavirai e ritornerai ad avere il cuore e la mente di una volta……hai trovata una bella moneta per pagare chi ti crebbe e ti portò avanti….dimmi, chi ti ha fatto mutare così! Spero in vita mia non aver mai bisogno: se ti debbo qualcosa me lo scrivi, che son pronta rifarti…..bada che quello che si semina si raccoglie […] ”. Fermiamoci qua un momento: oltre ad un attacco alla sua Ciccina che – si legge tra le righe – lo avrebbe cambiato, si arriva al paradosso di quel “..se ti debbo qualcosa..”, unico vago accenno alle cinquemila lire ‘prestate’ da Luigi, ma…andate in cavalleria insieme a tanti altri suoi risparmi. Dopo un biblico “ […] Si rinnova così la stirpe di Caino […] ” sulla scena epistolare compare la seconda sorella, che interpreta la sua parte con sfumata blandizie “ […] dov’è andato l’animo tuo sensibile d’una volta, che si commoveva d’un nonnulla?”. Un capolavoro di insulsaggine, compendiato da trepidi toni patetici: “ […] se mi volessi un tantino di bene e sapessi le mie condizioni di salute […] mi sento sempre la febbre, non parlo con nessuno […] che Dio abbia almeno pietà”. Poi, partendo dal principio che è meglio parare i colpi prima che arrivino, visto che ‘Ginuzzu’ ha dato sempre ed a tutti: “ […] i soldi tuoi li conservo per qualche mia rozza cassa (?) …ah, caro Gino! Ti prego non dimenticare l’affetto che hanno avuto le tue sorelle […] Tu lo sai che Filippo fa bau bau e che una tua eventuale parola farebbe ritornare tutto alla normalità …quante lacrime, quanti tristi pensieri […] Ti prego essere buono, se vuoi che viva qualche altro tempo”.
Mentre Vittorio si tiene sopra la mischia, Giovannino, seppure in parte condizionato dal dispiacere per Maria – vittima, in fondo, dell’improntitudine del fratello maggiore – gli manifesta il suo appoggio, usando espressioni anche commoventi e facendo luce – un’assai triste luce – sull’infanzia tribolata del fratello minore:
“Io e Vittorio ti siamo sempre al fianco, non ti abbandoneremo…..Ti vorrei vedere, in breve tempo, alla cattedra universitaria, bene sistemato, con la tua famiglia, felice e contentissimo. Non ho mai provato invidia per la tua posizione: forse altri avranno provato ciò….forse cercavano conto del denaro che con immensi sacrifici avevi guadagnato…..Piccolo, non mi è stato possibile stare vicino a te. Ti mandarono subito a Pellegrino, e godevo solo della tua compagnia nei pochi giorni delle vacanze. Quando ripartivi, mi si spaccava il cuore, ma subito mi rassegnavo, pensando che a Pellegrino forse eri trattato un pochino meglio, sia per gli alimenti, come pure per le continue bastonate che ti risparmiavi dal papà…..Morto di fame e sempre bastonato! Ti avevo sempre presente, con i capelli lunghi e ricci e con il nastro rosso che li teneva legati….Nei momenti di sconforto, pensa che la tua Ciccina ti è sempre vicina e ti vuole tanto bene e che soffre delle tue sofferenze. Il tuo fine sia uno: quello di andare avanti, alla faccia di tutti gli invidiosi e di realizzare presto il tuo matrimonio con Ciccina”.
Tra queste beghe squallide, Luigi completa gli esami già sostenuti contemporaneamente a quelli di medicina, e si laurea in Farmacia ed in Chimica. Lo stesso anno, e per il biennio 1938-39, riceve l’incarico ufficiale per l’insegnamento della Chimica Biologica agli studenti di medicina dell’Università di Parma.
La miseria di un tempo è stata sostituita da una dignitosa modestia economica: ma, come dirà spesso lo scienziato, la durezza della vita, se ha causato tanta sofferenza, ha contribuito in misura decisiva a forgiargli il carattere. Adesso che ha uno stipendio discreto, risparmiando sulla sua persona è in grado di non far mancare nulla a papà Giuseppe ed a mamma Carmela, ai quali anche Giovannino e Vittorio provvedono e, quando va a Messina, porta sempre con sé qualche gioiellino per la fidanzata.
Quanto a Maria, ha raggiunto a Pellegrino la sorella Annetta e scrive a Gino il 30 giugno, comunicandogli l’intenzione di riprendere gli studi e conseguire la licenza magistrale. C’è anche un accenno, molto pacato, alla sua generosità: “ […] quello che non mi fu possibile fare quando ero piccola, mi riprometto di fare adesso con l’aiuto dei nostri; mi dispiace pensare che ho fatto spendere del denaro per il corredo; se no, senza quello che tu mi avevi dato, avrei dovuto ricorrere ad altri per mantenere i professori”. In una seguente di luglio, usa espressioni molto più equilibrate, dalle quali si ricava l’impressione che abbia capito, in un qualche modo, chi ha fatto il guaio. Anche Luigi riesce a placare l’indignazione e si avvicinerebbe ulteriormente se i compartecipi della bravata mostrassero qualche segno meno reticente di pentimento. Il 17 di luglio, giorno del suo ventiseiesimo compleanno, gli giunge una lettera di Giovannino, al quale ha spedito un portasigarette in oro ed argento, e dopo poco un’altra dalle sorelle che gli scrivono “ci siamo trovati in urto con te solo per difender Maria; potremmo anche avere sbagliato” e lo invitano a cercare una via di mediazione con Peppino. Ma ormai è troppo tardi.
L’estate, dopo la chiusura dell’anno accademico e degli esami, Luigi parte per Messina, riabbraccia la sua Ciccina e va a Linguaglossa da mamma Carmela e dal babbo. Visita la madre, stila una dettagliata prescrizione e le procura le medicine necessarie. Fa anche lezione di matematica a Ciccio Pavone, nipote al quale è molto affezionato.
Nel frattempo, l’irrequieta indole di Tullio lo porta ad accettare un ulteriore trasferimento a Genova. Non conosciamo particolari, ma sappiamo che Luigi declina l’offerta di seguirlo: e possiamo ben comprendere le ragioni delle sue scelte. Da tempo cammina con le sue gambe e come leggeremo tra poco, è pieno di idee e di progetti; inoltre si é trovato bene tra la gente emiliana e ha cominciato ad informarsi su incarichi disponibili in regione. Sia come sia, Tullio avverte sempre più viva l’esigenza di stare accanto a visi conosciuti e persone che gli vogliono bene: Parma rimarrà la sua città, visto anche che la linea ferroviaria Parma-Genova gli consente di andare e tornare senza soverchia difficoltà, e potrà continuare a confidarsi con quel figlio adottivo… L’ultimo attestato che rilascia a Luigi non solo è un compendio del fiuto infallibile nell’individuare talento o mediocrità, ma tributo clamoroso dell’incondizionata ammirazione nei confronti dell’ex allievo ed esplicita e nobile ammissione della sua superiorità: il tutto con una vena di malinconia che ci sembra traspaia dalla castigata forma dell’accademica prosa.
Laboratorio di Fisiologia R. Università di Parma – Ospedale Maggiore – Il Direttore – Parma, 20 ottobre 1938, XV:
“Nello staccarmi dal Dr. Luigi Di Bella, che ha declinato la mia offerta di seguirmi a Genova, sento onestamente di attestargli quanto segue: il Di Bella ha collaborato attivamente a quasi tutte le ricerche eseguite negli Istituti da me diretti dal 1930 al 1938, dimostrando intelligenza vivissima, intuizione rapida, valutazione esatta, tanto da indurmi a non intraprendere ricerca senza prima consultarmi con lui. Di eccezionale cultura e rara perizia tecnica opera con eleganza e disinvoltura sul labirinto e manovra correntemente l’oscillografia catodica. – Con rammarico vedo cadere sul Di Bella indifeso critiche su alcune sue ricerche (Boll. S.I.B.S., 10,14,1935; Arch. Fisiol. 37, 291, 1937) che ho spinto io a pubblicare; anzi il lavoro in extenso, che non è che la tesi di laurea, affrettatamente stesa in poche notti dal Di Bella, lo portai io stesso, ad insaputa del Di Bella, dal Collega Spadolini per la pubblicazione sull’Archivio. I rimanenti lavori in collaborazione spettano per esecuzione e stesura al Di Bella, essendomi io limitato a dettarne l’introduzione e le citazioni bibliografiche. – La mia sincera convinzione è che se il Di Bella raggiungerà la meta ne guadagnerà certamente la Fisiologia italiana. Con grande dolore mi distacco dal Di Bella e mi vedo negato l’orgoglio e la soddisfazione di offrirgli quella protezione di cui avrebbe particolare bisogno per la sua timida riservatezza e che meriterebbe invece per il suo alto valore, quale solo chi l’ha visto lavorare indefessamente per otto anni in disperate condizioni economiche, può in verità attestare. Prof. Pietro Tullio”.
Con poche righe Tullio coglie non solo il valore dell’allievo e l’importanza della sua opera (“ […] ne guadagnerà certamente la Fisiologia italiana”), ma già individua la fonte delle ostilità che lo attendono, profetizzando la vita gloriosa e dolorosa che gli è destinata. Nello “…staccarmi…” iniziale, ribadito nell’ultimo periodo da quel “Con grande dolore mi distacco […]” e dall’eloquente “ […] mi vedo negato l’orgoglio e la soddisfazione […] “, non c’è solo l’affetto e l’ammirazione di un grande per un altro grande, la lucida consapevolezza che il destino gli ha fatto incontrare un genio, ma anche la chiara premonizione che in un mondo di lupi la ferocia del branco si sfogherà azzannando il mite poeta (“ […] quella protezione di cui avrebbe particolare bisogno per la sua timida riservatezza e che meriterebbe invece per il suo alto valore”). L’ostilità del branco, come leggiamo, si è già manifestata: questo “figlio di nessuno”, come tante volte si è autodefinito, diserta le riunioni conviviali, non frequenta i salotti della buona società, si defila dai conciliabili d’ateneo, rifiuta pettegolezzi ed intrighi, fa man bassa di riconoscimenti; si è permesso di pubblicare lavori a diciannove anni, è stato notato e premiato da Marconi. Non può che suscitare sospetto, allarme e invidia: tanta invidia! In certi ambienti, quelli “che contano” e in modo particolare nel mondo medico-accademico, sul quale Luigi ama ripetere una massima fresca di conio: “homo homini lupus; medicus medico lupissimus”.
L’asocialità pericolosa di uno che osa essere onesto, idealista e – peccato capitale – geniale, colto e infaticabile, è culla di un sovversivismo che costituisce una minaccia per tutti. Minaccia che occorre segnalare a tutti i soci del grande club delle nullità. Per il momento si può solo criticare quello che scrive, beninteso senza averlo letto. Ma più avanti, quando l’Italia si sarà sbarazzata degli Albertoni e dei Tullio, dei Marconi, dei Mascagni, dei Gentile, Pirandello e D’Annunzio, trionferà il neofeudalesimo accademico e si giocherà al “Monopoli” delle cattedre, allora i Maestri saranno sostituiti da cortigiani e giullari, non pochi premi Nobel assegnati dalle case farmaceutiche ad ossequiosi ragionieri della scienza; e, finalmente, si faranno i conti…
La stupidità non è altro che una forma di immoralità o, se preferite, il suo più frequente abito, come ha detto magistralmente Oscar Wilde:
Non esiste altro peccato che la stupidità
Il 1938 si conclude comunque con rosee previsioni per l’avvenire ed un’opera importante alla quale avevamo prima fatto cenno: un trattato di Chimica Biologica, scritto rielaborando e integrando gli appunti preparati per le lezioni tenute agli studenti. Basta leggere poche pagine per rimanere impressionati dalla chiarezza e dalla logica di esposizione. Lasciano pensierosi, fra l’altro, alcune considerazioni esposte nel capitolo sulle vitamine, in particolare sulla vitamina A ed il Carotene. Altri sarebbe andato fiero dell’opera realizzata e si sarebbe adoperato per darle una veste tipografica importante e diffonderla. Il testo è stato invece lasciato a disposizione degli studenti e citato una sola volta – in un elenco di “titoli e documenti di carriera” – redatto una decina di anni dopo in occasione della partecipazione ad un concorso a cattedra. Lo abbiamo rinvenuto tra vari documenti, dopo che aveva dormito per decenni nel cassetto di una scrivania abbandonata. E’ stata una viva emozione leggere sulla copertina ingiallita: “Regia Università di Parma – Facoltà di Medicina e Chirurgia; Dott. Luigi Di Bella, CHIMICA BIOLOGICA – Corso di lezioni tenute nell’anno accademico 1937-38 XVI”. Come accadrà anche molto tempo dopo, gli studenti continueranno ad apprezzare e adorare quell’infaticabile docente, l’unico che rendeva chiari e comprensibili a chiunque i concetti più difficili e complicati. Ci è arrivata anche, sotto forma di attestato, l’eco della stima e del ricordo dei vecchi colleghi6.
Luigi trascorre le festività di Natale a Milano, in compagnia di Vittorio. Giornalmente partono e arrivano cartoline da Parma e per Parma, oltre a più lunghi messaggi: “Gentile Sig.na Ciccina Costa, Fondo Basile-Casa Basile nr. 12 Messina Giostra” e “Dottor Luigi Di Bella – Aiuto Istituto Fisiologia R. Università, Ospedale Maggiore, Parma”. Ci pervade un senso di smarrimento, osservando i rettangoli delle cartoline brulicanti di righe, con inchiostro ora vivo ora stinto e, quelle di Ciccina, con qualche petalo di gelsomino ancora coeso al cartoncino: sopravvivenza dell’inanimato all’animato, dei simboli di vita sulla vita. E con lo smarrimento arriva il più grande inganno umano: credere che realtà sia soltanto l’evanescente presente, monello dispettoso che corre in continuazione, fugge via quando cerchiamo di fermarlo un istante, prenderlo per mano, rivolgergli qualche domanda. I francobolli rossi da venti centesimi, con l’effigie di Giulio Cesare, quelli da trenta dai quali ci fissa Vittorio Emanuele III, i timbri “Visitate l’Italia”, quelli tondi con la data e l’anno fascista in cifre romane, non sono anticaglie sulle quali sostare con vana nostalgia delle persone amate, ma segni di quel mistero del tempo che la nostra mente non riesce a svelare né ad accettare. La voragine che ha inghiottito miliardi di uomini, troni, imperi, cariche onorifiche, potere, calunnie, ingiurie, inganni, complotti, amori, tenerezze familiari, dovrebbe indurci a guardare verso l’alto, desistere dalle meschinità: ed a nutrirci della lezione dei grandi spiriti invece di criticarli e perseguitarli. Al contrario, si crede che chi ci è superiore lo sia soltanto per farci dispetto: come se le aquile avessero tempo da perdere in gare di volo con le galline.
Qualcuna delle cartoline ci descrive tratti della vita di Luigi.
“7 febbraio 1939: […] oggi ho lavorato fino a tardi e sono molto stanco. A mezzogiorno ho mangiato con quel mio amico di Palermo (si tratta di Pompeo Spoto), poi abbiamo preso un caffè e fatto un giretto per i giardini ed alle 14.30 ero di nuovo al lavoro al laboratorio. Ora è mezzanotte passata, vado ad imbucare la presente e se avrò fame prenderò un poco di latte; poi sistemerò i 21 rattini ed una cavia operati oggi. Qui continua a fare un tempo poco bello e la sera specialmente esco sempre con l’impermeabile, data la temperatura […] ”.
Parla in altre di informazioni che sta prendendo su titolari di cattedra nelle università vicine, del lavoro continuo, dei suoi mal di capo, ai quali pone rimedio con grossi dosaggi di vitamina B1. Ciccina è sempre in ansia per la sua salute, lo pensa solo e senza aiuto in caso di bisogno, parla degli acquisti che sta facendo nell’imminenza del matrimonio e non manca qualche maliziosa nota inquisitoria originata dalla gelosia. Da quanto scrive abbiamo anche notizie sulla vita in casa Costa: Tonuccio e Peppino che, nel tempo libero, si dedicano alla fotografia ed alla cinematografia, Giovanni e Carolina Costa che fanno sempre la spola tra casa ed il luogo di lavoro, la nuova Farmacia del Popolo, Citta e Sara che sono diventate due belle ragazze e, da brave gemelle, si vestono sempre uguali. In maggio comincia a delinearsi concretamente la possibilità di stabilirsi a Modena, dopo contatti avuti con il locale ateneo. Nel giugno 1939, superato il concorso nazionale, viene nominato assistente effettivo.
Il mese successivo un motivo di viva preoccupazione è costituito dalla salute di Ciccina Di Bella, che si sospetta abbia un tumore al seno. Il primo luglio scrive all’amata: “ […] il tempo passa e mi pare che anche tu ti avvicini col trascorrere del tempo. Domani scriverò a Puglisi Allegra (il clinico messinese che ha contattato per indagini diagnostiche sulla sorella) …da stamane, salvo brevi interruzioni, sono seduto su uno sgabellino di ferro girevole intento a tradurre dal tedesco ed a scrivere a macchina. Ho scritto pagine e pagine e mi sento la schiena rotta. Dopo avere imbucato la presente riprenderò a lavorare perché voglio finire questo lavoro estenuante”. Il lavoro che lo assorbe vedrà la luce di lì a poco7. Viene formalmente richiesto a Modena dal Prof. Aggazzotti e lo comunica alla fidanzata. Ciccina Di Bella è a Linguaglossa, ed accusa dolori alla spalla ed al braccio. Luigi ricontatta il clinico prima citato, che interviene chirurgicamente eseguendo lo svuotamento del cavo ascellare e proponendo un poco di röntgenterapia. Questa verrà praticata, ma con la minor intensità e durata suggerita da Luigi, che consiglia anche l’assunzione dei preparati, allora disponibili, contenenti vitamina A, D ed E. In questo periodo appare in chiaro per la prima volta in una lettera il nome di un amico, prima citato di sfuggita, che gli dimostrerà per tutta la vita la sua devozione: è l’allora Dottor Pompeo Spoto, anch’egli di origine siciliana, che fino al suo ultimo giorno intratterrà con lo scienziato una copiosa corrispondenza. Riappare la figura di Tullio in altre due lettere: in una l’ex allievo parla di una “lettera di accompagnamento alla mia relazione” rilasciatagli dallo scienziato; in un’altra leggiamo che “ […] Tullio non riesce a dimenticarsi di me e quando può mi attacca volentieri dei bottoni per passare insieme il tempo”. Non che i colloqui con il grande fisiologo non interessino a Luigi, ma con l’imminenza del matrimonio deve tesaurizzare ogni istante, lavorare forsennatamente per ultimare le ricerche in corso e godersi in serenità la sua Ciccina: “Sento proprio il bisogno di riposo, di vero riposo …non ho più la forza di stare in piedi e di tenere gli occhi aperti”. Qualche giorno dopo gli arriva una lettera da una sorella, nella quale gli viene chiesto un aiuto altolocato per una questione che riguarda il marito: il potente Pietro interviene presso il ministero competente, ma nemmeno la sua autorevolezza riesce ad accontentare i richiedenti che, detto per inciso, chiedono comunque cosa perfettamente lecita. Ma ciò che rattrista è che si ricorre a Gino continuamente e per qualsiasi cosa: da prestiti a fondo perduto a cure mediche, da lettere di presentazione a richieste come quella accennata, che lo costringono a fare la cosa più aborrita: chiedere favori a qualcuno, lui che detesta la diplomazia dei rapporti sociali e si è tenuto lontano dalla nomenclatura del tempo, della quale non sopporta la retorica e la vacuità. La persistente tenacia con la quale è bersagliato dalla richiesta di aiuti di ogni genere lascia veramente interdetti e confessiamo che qualche espressione di esasperazione ci è sfuggita scorrendo decine di lettere dei familiari che pestano sullo stesso tasto, gli ricordano la richiesta a breve distanza di tempo, lo sollecitano e risollecitano, senza alcun pudore né la minima preoccupazione per i disagi provocati.
Nelle ultime lettere di quel periodo si fa riferimento a Tullio anche per un altro motivo: l’antico maestro denuncia sintomi di una rara quanto preoccupante patologia, che si è già diagnosticato da solo e che difficilmente altri avrebbero individuato. Un turbamento psicologico ed emotivo che gli fa trascurare il lavoro di ricerca che d’altronde, senza più Luigi accanto, ritiene non abbia più senso. Gli manca l’energia, la spinta ed è triste vederlo demotivato ed abulico. Si insinua lentamente un presentimento che, più che angosciarlo, lo rattrista in modo indescrivibile. Il 18 luglio leggiamo: “Tullio dice che vuole lasciarmi tutta la sua biblioteca e 150.000 lire e che non si può dimenticare di me […] ”. La generosa promessa non potrà essere esaudita, ma dimostra, senza mezzi termini, che il vecchio scienziato considera Luigi come il figlio che non ha avuto.
Circa le pressanti richieste dei familiari che si succedono senza soluzione di continuità, commenta: “ […] non manca di fare la sfacciatella con me, continuando a rivolgersi indifferente malgrado quello che c’è stato. Io farò quello che potrò e ti dico la verità, provo anche una certa soddisfazione in questi richiami continui. Si son voluti allontanare da me credendosi indipendenti, e sono ritornati a me. Per ora non li voglio umiliare, ma lo farò se insisteranno così”. Non importa fare nomi: parliamo di persone che appartengono al mondo dei più e che, nel tempo del quale parliamo, erano ancora giovani e quindi meno riflessive di quanto sarebbero state in futuro.
Per il momento non pensa che al coronamento del suo lungo sogno d’amore, 20 luglio: “stasera ho visto una piccola falce di luna nel crepuscolo. Sarà l’ultima luna piena che passerò a Parma; alla prossima sarò in procinto di partire per abbracciarti”. 29 luglio: “ Stasera Tullio mi è venuto a trovare trattenendosi per un paio d’ore. E’ mezzanotte passata ed andrò a cenare, così al ritorno potrò studiare almeno un’oretta. Stasera c’è una bellissima luna in un cielo limpidissimo ed una calma assoluta: si sente solo il lamento di una civetta che ha il nido proprio a due passi dal laboratorio”. In altre successive parla ancora del Prof. Tullio che lo va a trovare ogni giorno, assalito da una tristezza che dissimula dietro lunghi discorsi e qualche battuta salace. Si manifestano anche i primi segni di comportamenti parassitari che, complice la sua disponibilità, assilleranno Luigi per buona parte della vita futura: “Stasera ho finito di scrivere e di dattilografarmi un lavoro che comparirà presto. Ho poi fatto la pulizia dei ratti, che incomincerò ad operare domani. C’è qui Meneghini, un mio collega e adesso andremo a cenare assieme. Poi gli detterò un lavoro che ha fatto con me e che vuole pubblicare”.
Finalmente arriva il giorno dei saluti, primo tra tutti quello a Tullio, che parte per San Vito al Tagliamento a dimenticare il suo malessere e medicare la malinconia tra compaesani e nipoti. E’ sfinito per l’attività convulsa degli ultimi giorni, ma sereno, soddisfatto per i risultati conseguiti, pieno di gioia al pensiero che Ciccina sarà finalmente sua. Quando all’alba il treno inizia a costeggiare la costa calabra, rivede il mare: sembra ancora assopito nel dissolto mistero notturno, sempre più cilestrino e sempre meno color piombo, placido come un bimbo appena sveglio e ancora assonnato. Le onde si sciolgono quiete sulla rena, come timorose di rompere il silenzio dell’ora e l’orizzonte si rischiara di minuto in minuto. Lo divora l’impazienza di arrivare a Villa San Giovanni ed al tempo stesso, un po’ per calmare l’agitazione, un po’ per godere dell’attesa – non meno appagante dell’evento che la segue, perché non rattristata dall’erosione del tempo – si sforza di bearsi alla vista delle località intermedie: Paola, Amantea, Lamezia, Pizzo, Tropea, Gioia Tauro …e già si intravedono in fondo le Eolie, Palmi, Scilla …gli viene un groppo in gola quando compare lo splendore della Sicilia. Appena il ferry boat salpa, vola per le scale di ferro sul ponte, fissa il sole blu del mare, denso come fosse olio salmastro, fa spaziare lo sguardo sino a punta Faro, alla vetta di Antennammare, alla città candida che già lo avviluppa con braccia invisibili di aromi portati dal vento, alle palme della passeggiata a mare, dove una decina d’anni prima si macerava al pensiero della sua misera condizione: un’occhiata breve alla scia caduca tracciata dalle eliche rutilanti e poi volge il capo a seguire il continuo rinnovarsi della spuma sollevata dalla prua. Ha lottato, perseverato e vinto. Solo una vaga inquietudine che nasce, come in ogni buon siciliano, proprio dalla pienezza con la quale sembra sorridergli il sole della vita. Ed il cuore non gli mente. Le meschine ed anacronistiche pretese familiari, contornate da interminabili conciliaboli tenutisi alle sue spalle, gli assurdi rancori di Filippo, che in sostanza non gli perdona di non essersi acquattato ossequiente ai suoi voleri, l’imbarazzata incertezza del padre, che non fa valere in quell’occasione la sua autorità, porteranno all’assenza dei suoi cari alla cerimonia di nozze. Luigi ne soffre, ma la durezza della sua vita ne ha fatto un uomo maturo e blindato – per quanto possibile – nei confronti delle meschinità. Adesso ha una visione chiara delle debolezze e delle qualità dei fratelli; ne prende atto con realismo, temperanza ed un certo compatimento. Ma non consentirà mai a nessuno di insinuarsi nell’intimità della sua nuova famiglia e disseminarla con le uova del sospetto e dell’insinuazione. Si alterneranno occasioni di riunione ed allontanamento, di predilezione e di guardingo distacco, senza che torni l’intesa di un tempo.
Ma ben più gravi eventi accompagnano l’unione di Luigi e Ciccina. Due giorni prima delle nozze, alle ore 4 e 45 del mattino di venerdì 1 settembre 1939, la vecchia corazzata tedesca “Schlezwig-Holstein” apre il fuoco contro la guarnigione polacca sulla penisola di Westerplatte, mentre le truppe tedesche invadono il territorio della Polonia contemporaneamente da tre direzioni: è l’inizio della seconda guerra mondiale. I più leggono la notizia sui giornali senza soverchia preoccupazione e la vita continua come prima, pur con qualche sommesso timore.
La funzione viene officiata domenica 3 settembre 1939 al villino Runci, con la regia di Adolfo Runci, che cura ogni particolare nel giardino e nell’interno: fiori dovunque, nelle aiole, lungo la breve scala d’ingresso, sulla quale veglia una statua muliebre in bronzo che si dice raffiguri una donna amata dall’ufficiale e prematuramente scomparsa, dolci, confetti sulla tavola imbandita. Luigi regala a Ciccina un bracciale d’oro lavorato. Qualche anno prima della scomparsa, vorrà rivedere il gioiello: lo fisserà a lungo, silenzioso, mentre nei suoi occhi si succedono l’abito bianco di Ciccina, il cielo terso di settembre, i vocìi, i sogni di quel giorno lontano; ed alla fine mormorerà: “Le ho voluto un bene immenso”.
L’assenza dei Di Bella viene compensata dall’affetto degli intervenuti e dalla commossa partecipazione dei Costa. E Adolfo Runci diviene il compare Runci. Fuori dal villino si accalca la povera gente di Giostra, per la quale il matrimonio della figlia del farmacista è l’avvenimento dell’anno. Ma Gino si trova a disagio; il pudore e la riservatezza innati lo fanno tremare al pensiero di essere inondato da frasi convenzionali, pur uscite dal cuore e di dover rispondere impacciatamente con altre ovvietà: farà il suo ingresso nel villino arrampicandosi da una scala poggiata al muro di confine. I gelsomini di tarda estate sembrano affidare all’aria baci profumati, mentre gli sposi parlano tra di loro, si abbracciano, intrattengono gli invitati. Nel giardino assolato la brezza ruba alle rose il loro aroma, mentre bergamotti, aranci e limoni emanano una più rustica fragranza. Il cielo azzurro, il cielo di Sicilia, sembra seguire dall’alto il gesticolare degli invitati ed ascoltare le loro voci, mentre nuvole soffici procedono come angeli assopiti verso le colline. A ventisette anni Gino ha capelli foltissimi e neri, con qualche filo candido che già comincia a far capolino, inforca occhiali tondi, e l’espressione sembra ancora più seria per effetto dei baffetti che porterà per tutta la vita, non per vezzo, ma per necessità: sotto il naso i peli della barba sembrano fil di ferro. “Non ne potevo più, ogni volta che mi radevo, di sentirmi colare goccioloni dagli occhi per il male”. Una fotografia di quel periodo lo raffigura insieme alla sposa nella terrazza di casa Costa, un sigaretta tra le dita e la cravatta assicurata al colletto della camicia con un fermacravatte di metallo.
Il viaggio di nozze è stato quanto di più frugale possa immaginarsi: Catania, la villa Bellini, le vie ed i palazzi dei romanzi giovanili di Verga. Al ritorno, dopo alcuni giorni passati a casa Costa, i due sposi partono: Luigi ha già fissato la residenza a Modena, alla cui Università prenderà servizio il 29 ottobre e dove Ciccina troverà una casa completamente arredata.
Si può vedere ancora a Modena, in via Cucchiari, al civico 115, un edificio di quattro piani con mattoni a vista dal primo in su, il cui portone d’ingresso è sormontato da una lapide con la scritta: “Casa Serena – Lina e Giovanni Tirelli”. Morti i proprietari, é stata per alcuni anni una casa di riposo gestita da religiose, prima di assopirsi, vuota e silenziosa, insieme ai ricordi custoditi. La sua costruzione risale alla seconda metà degli anni trenta, quando i coniugi Tirelli vi avevano investito buona parte delle loro risorse per assicurarsi un tranquillo avvenire, occupando un appartamento ed affittando gli altri. Era ed è una zona silenziosa, popolata di case e di villette costruite quasi tutte nell’anteguerra, molte delle quali di gradevole aspetto: saremo certamente condizionati dai nostri ricordi, ma ci è spesso capitato di passeggiare nei pomeriggi d’autunno per quelle vie e fissare l’ocra del manto di foglie cadute, provando la sensazione immanente di un mondo del passato che si alterna a quello presente; tanto che ci sembrerebbe cosa naturale scorgere il giovane scienziato mentre passa pensoso con la bicicletta per le vie solitarie.
Casa Tirelli si affaccia per due lati su via Cucchiari ed una traversa, per gli altri due su un giardino, molto più ampio sul lato sud. Allora il giardino, nella parte non coperta di ghiaia, era ravvivato da ampie aiole ed ombreggiato timidamente da qualche pioppo ed un paio di abeti. Il confortevole appartamento preso in affitto da Luigi era al terzo piano e comprendeva cucinotto, bagno, stanza da pranzo, salotto, camera da letto ed un piccolo tinello. Giovanni Tirelli durante la giovinezza aveva gestito una tipografia a Trieste ed ora, venduta l’attività, lavorava saltuariamente con una rotativa allocata in cantina; Lina era stata maestra elementare e chiamava il marito per cognome, come si usava spesso in Emilia. Specie all’ora di pranzo, la si poteva vedere affacciata alla finestra per avvertirlo che erano a tavola con un “Tirelli! Tirelli!”. Il contratto formale di affitto, dopo il solenne cappello “Regnando Sua Maestà Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia”, prevede un canone annuo di duemilacinquecento lire. I Tirelli rimangono subito bene impressionati da quel giovane medico docente universitario, serio, puntuale, silenzioso, con il quale si stabilirà un rapporto di amicizia sempre più stretto. Quando arriva Ciccina, felice ma con il cuore colmo di nostalgia per la sua terra ed i suoi cari, confusa per il brusco passaggio dal festoso movimento di casa Costa al silenzio di quella strada allora periferica, i Tirelli l’accolgono con cordialità. L’autunno padano è ben diverso da quello della Sicilia. Le prime nebbie ovattano la città, gli alberi cominciano a spogliarsi e per l’aria vaga il caratteristico odore di foglie e rami bruciati nei giardini. Spesso Ciccina, il pomeriggio, accompagna Gino in Istituto. Questo è un antico edificio a breve distanza dal Duomo, e allontanandosi pochi passi dall’ingresso, che si apre sulla piazza S. Eufemia, si vede biancheggiare il frontale della meravigliosa chiesa romanica. Nella laterale via S. Leodoino Vescovo l’immobile confina con il carcere della città, dal quale giunge il brusìo dei carcerati, la campanella che segnala l’ora dei pasti o del riposo serale. All’interno un grande giardino, un po’ cupo, con alcune magnolie ed un imponente abete.
Da via Cucchiari a S. Eufemia – così parlando designano l’istituto – c’è un bel pezzo di strada, che percorrono a piedi o in bicicletta, con Ciccina sulla canna. Tanti anni dopo lei ricorderà con nostalgia certi pomeriggi domenicali. Gino, che la chiama Pallina, visto che è un po’ rotondetta, le propone il più delle volte: “senti, lo sai che cosa possiamo fare? Usciamo, ci facciamo una passeggiata, passiamo un momento da Sant’Eufemia, così vedo se c’è posta e poi torniamo a casa”. Ma in genere le cose vanno diversamente. Mentre lui si attarda regolarmente in esperimenti o nel preparare le esercitazioni per il giorno seguente, la sposina mette un po’ d’ordine, gli lava la vetreria e prepara il caffè sopra un becco Bunsen perpetuamente acceso. Caffè deliziosi, che stillano da un cilindretto chiuso da filtri: si pressa la polvere e si aggiunge di volta in volta l’acqua che bolle in un bricco, mentre il profumo della bevanda si diffonde nella stanza di lavoro. Confortato e come esaltato dalla presenza di Ciccina, Luigi è instancabile, lavora senza un attimo di requie, appagato, felice. Ben di rado fanno ritorno prima della mezzanotte, con il fanalino della bicicletta che illumina la strada ed il ronzìo della dinamo rifratto dai colonnati che affiancano le vie del centro. Arrivati a casa cenano insieme nell’intimità del tinello, felici, e la gioventù, condita dalla fame, vede sparire corpose frittate digerite senza problemi magari all’una di notte. Naturalmente non manca il pianoforte preso a noleggio e la domenica dopo pranzo suonano a turno o a quattro mani la musica preferita e nuovi spartiti. “Mi sembrava di sognare”: così lo scienziato rievocherà quel periodo. Comincia il freddo e i due sposini si scaldano con la cucina economica di ghisa, che accompagna l’intimità della coppia con le sue tiepide fusa. Tante amarezze recenti e gli stenti del passato si dissolvono insieme alle braci delle ruote di antracite che alimentano la stufa. Il primo Natale della loro unione i due sposini lo trascorrono nel tepore della loro casa, accanto al presepe addobbato da Ciccina sulla radio, guardando dalla finestra morbidi fiocchi di neve che si inseguono dando l’illusione che sia tutto l’edificio a volare silenziosamente verso un cielo popolato di sogni.
Nell’Istituto di Fisiologia il clima non ricorda in nulla quello nel quale Luigi ha finora lavorato: di un Tullio non c’è nemmeno la parvenza e, a parte una routinaria e grigia attività didattica, regna la mediocrità. Il ventisettenne scienziato non ha bisogno certo di maestri; ma il piattume e la virtuale assenza di qualsiasi iniziativa ed attività scientifica nell’ambiente modenese sono veramente sconfortanti. Questo significa che non potrà contare sulla collaborazione di personale preparato e che, come purtroppo dovrà constatare in seguito, la sua cultura superiore ed il vulcano di idee e progetti che gli si agita in capo saranno malvisti, in quanto scomodi termini di paragone. Di Murri, Albertoni, Lussana, della grande tradizione della fisiologia e neurofisiologia dottrinaria e clinica tedesca, si sa poco e si capisce meno. Luigi può contare solo su se stesso. L’idea che gli gira in testa, più che idea è un’intera concezione, alcuni capitoli della quale sono appena abbozzati, altri interamente da scrivere. E’ il più grande mistero dell’universo ad attirarlo ed incantarlo: il mistero della vita, per tentare di comprendere il quale occorre si fondano tutte le conoscenze umane, tutte le scienze, senza distinzioni e specializzazioni di comodo. Di fisiologia e neurofisiologia, chimica e biochimica, biologia e biologia molecolare, fisica, chimico-fisica, endocrinologia, farmacologia e di tutte le discipline complementari occorre essere padroni assoluti; ma non basta. Occorre che fisiologia e neurofisiologia non intervengano solo quali fonti di conoscenza, ma nella funzione interconnettivante ed interesplicativa di tutta la scienza medica. Dove sta andando la medicina? E’ tollerabile la crescente messe di errori diagnostici e terapeutici? L’inconsapevolezza del cammino diagnostico e terapeutico? Che qualcuno travalichi il delicatissimo compito del medico e pretenda di dettargli iter diagnostici e prassi prescrittive? Quante vite si potrebbero salvare, quante sofferenze evitare se il medico sapesse quello che invece ignora e, di conseguenza, si capacitasse di quanto lo vede inerte e cieco osservatore! Se si portassero i più capaci a ragionare con la loro testa, sfuggendo alle mode ed alle fallaci lusinghe del montante potere farmaceutico!
Ma già nel 1940 sono purtroppo numerosi gli esempi non soltanto di ‘lusinghe’, ma di autentici ostracismi: ne sa qualcosa Alexander Fleming. Già nel 1922 era rimasto senza séguito l’annuncio della sua scoperta del Lisozima al Medical Research Club, né maggiore ascolto avrebbero avuto i 5 successivi studi pubblicati. Un colossale e delinquenziale esempio di cecità, una volta considerato che il Lisozima é un prezioso enzima prodotto in più distretti dell’organismo, e senza il quale difficilmente avrebbe potuto sopravvivere la specie umana. E’ infatti definibile il più universale, potente e innocuo antivirale disponibile in natura: e di conseguenza il più pericoloso concorrente di qualsiasi remunerativa specialità antivirale. Ancora oggi somaraggine e ben retribuita malafede tentano di presentarlo quale poco efficace antibiotico, oscurando impunemente la sua vera attività: quella antivirale, ampiamente provata sperimentalmente e clinicamente da oltre 80 anni, nonché facilmente rilevabile da qualsiasi studente sappia mettere a fuoco un microscopio ed osservare la lisi operata su colture di virus. Un danno di enorme portata anzitutto alla vita umana, quindi alla scienza. La storia sancirà che lo scienziato scozzese meritava il Nobel per la scoperta del Lisozima quanto quello per la penicillina, se non addirittura di più: o meglio, che li meritava tutti e due, pur tenendo conto del decisivo contributo di Florey e Chain – che divisero con lui l’ambizioso premio – alla realizzazione della penicillina.
Dopo la successiva pubblicazione, nel 1928, delle prime evidenze sperimentali che avrebbero portato alla penicillina, Fleming viene deriso per le sue muffette dall’establishment scientifico. Moriranno decine di migliaia di feriti, militari e civili, che avrebbero potuto salvarsi, senza che in seguito nessuno venga chiamato a rispondere di queste morti, come di quelle dei milioni di vittime di polmoniti e di varie forme di sepsi. Solo il caso, o per meglio dire una prioritaria esigenza politico-militare, porterà per la prima e unica volta nella storia della medicina moderna al prevalere del potere dello stato su quello del sistema farmaceutico; delle ragioni della vita su quelle speculative; dell’umanità sull’avidità di denaro. E Fleming dovrà solo ed unicamente all’emergenza costituita dal conflitto in corso se, invece di continuare a venire bollato quale visionario e ciarlatano (e successivamente dimenticato e fatto dimenticare), riceverà – a denti stretti – il Nobel. Seppure dopo vent’anni di insulti e dileggi. Infatti occorrerà attendere la perdita della disponibilità dei sulfamidici tedeschi, in seguito agli eventi bellici, perché qualcosa si smuova: ma permarranno, nonostante l’evidenza, sorde e ottuse opposizioni da parte dell’industria farmaceutica8. John McKeen, presidente della Pfizer, ancora nel 1950 diceva: “Se volete perdere rapidamente anche la camicia, mettetevi a produrre penicillina e streptomicina”. Un’affermazione che autorizza a parlare, oltre che di stupidità, di una natura criminale in tutto simile a quella degli autori dei grandi stermini della storia umana. Se Fleming fosse stato contemporaneo di Giordano Bruno ne avrebbe condiviso la tragica fine, o lo avrebbero costretto ad abiurare e dichiarare che il Lisozima non é un antivirale e la penicillina non é un antibatterico. Dal secolo dell’Inquisizione a quello di Shylock.
Tornando a Luigi Di Bella: dalla sua concezione non intende ricavare semplicemente la soddisfazione personale ed intellettuale di conoscere e capire, ma i mezzi per curare gravi malattie: in tutta la sua vita di scienziato e medico punterà sempre al pragmatismo. E’ ben consapevole che l’esistenza di un uomo, nella sua brevità, non consente di esplorare completamente i fenomeni della natura. Occorre fare una scelta, pur sofferta, rinunciare alla minuta decrittazione dei perché, dei meccanismi d’azione – a volte indispensabile, altre sterile erudizione fine a se stessa – e puntare al fine: aiutare l’uomo, sconfiggere morte e sofferenza. Il tumore, oltre che un male crudele ed incurabile, attira la sua attenzione perché comprende che lì si cela il mistero della vita. Sembra quasi che il Creatore abbia voluto dare all’uomo, attraverso la tragedia e il dolore fisico e morale del cancro, il filo d’Arianna per arrivare a comprendere – per quanto possibile all’umana natura – il mistero dei misteri. Cancro come maledizione, cancro come benedizione. Al tempo la terapia è
essenzialmente chirurgica, con eventuali coadiuvanti applicazioni radio, anche se già nel 1910 è stata attuata la sintesi di un derivato dall’arsenico, primo frutto velenoso della concezione citotossica. Se conviene come chirurgia e, molto più limitatamente, radioterapia, possano costituire presidi preziosi per evitare che l’invasione neoplastica colpisca centri vitali, il giovane fisiologo guarda con ben maggiore interesse a fasi come quella della riproduzione cellulare e della crescita. La medicina non deve limitarsi a procrastinare l’exitus del malato, ma cercare di salvarlo. Coglie subito la sostanziale differenza tra le precedenti guerre della medicina, combattute contro agenti patogeni esterni, ed il cancro. Il cancro, pur nelle sue molteplici e peculiari forme, è una malattia sistemica e la massa tumorale non è il tumore, ma la manifestazione più visibile e macroscopica del tumore. Una ipotesi di soluzione della malattia deve obbligatoriamente passare attraverso l’individuazione sia dei fattori che determinano ed accompagnano la vita – vita ‘normale’ come vita neoplastica – che dei loro antagonisti, degli altri fattori, cioè, che regolano, limitano, graduano il proprio intervento. Ha sempre studiato con particolare impegno le vitamine, le loro azioni non tutte o non ancora tutte svelate ed è rimasto colpito dall’azione della vitamina A sul fenomeno della crescita9 e, soprattutto da lavori di ricercatori tedeschi che pochi anni prima ne avevano rilevato, in vitro, l’azione antineoplastica. Tra la fine del 1939 ed il 1940 sono pubblicati quattro lavori, due dei quali costituiscono il primo passo nella via che ha intravisto, insistendo sulle “Intercorrelazioni fra carotene e tiroide nella crescita dei ratti”10.
La sorte lo ha posto di fronte al dramma del tumore nella persona della sorella Ciccina, che a distanza di tempo dall’intervento continua a soffrire. Annetta gli scrive da Pellegrino il 26 febbraio: ” […] Ciccina continua sempre coi soliti dolori …le linfoghiandole esistono sempre, non ha potuto riacquistare il movimento e dobbiamo aiutarla a vestirsi e pettinarsi”. Il chirurgo Puglisi Allegra è intervenuto con perizia e tempestività e non ha voluto percepire alcun onorario, trattandosi della sorella di un collega: ma le condizioni di Ciccina non accennano a migliorare. I primi di marzo, inaspettatamente, gli scrive Filippo: la sorella ha fatto una seduta di roentgenterapia, ma il dolore è intenso ed in famiglia sono tutti preoccupati. Il 13 marzo un’altra lettera è ancora più sconfortante: il chirurgo messinese sospetta metastasi ossee. Gino risponde comunicando il suo scetticismo circa il supposto sviluppo metastatico: scetticismo che trova conferma quando, una settimana dopo, Filippo gli comunica il responso delle radiografie eseguite, dalle quali non si rilevano tracce di metastasi. Comunque – continua Filippo – mentre c’è, Gino può collaborare al costo degli esami radiografici, che ammonta a trecento lire.
Ma un dolore terribile lo attende. Martedì 16 aprile 1940 gli giunge da Linguaglossa un raggelante telegramma di cinque parole: “Tua madre deceduta questa notte”. Un uragano di dolore, una devastazione dell’animo che lo segnerà per tutta la vita. Ancora vent’anni dopo non riuscirà a passare per Messina senza avvertire un brivido, una oppressione d’animo penosa, al ricordo del calvario di quel mesto viaggio. Mamma Carmela è rimasta vittima di uno dei suoi attacchi anginosi, per fronteggiare i quali Gino aveva portato parecchi medicinali accompagnati da minuziose istruzioni. Una volta a Linguaglossa, scoprirà con raccapriccio che non le sono stati somministrati. Non rimane che guardarla a lungo prima che gli sia portata via, tra un torrente di lacrime, ricordando le fresche mattine dell’infanzia, la messa alla Matrice, il duro lavoro dei campi, il caffè offertogli prima di partire per Messina. E insieme alla bara, che porta a spalla insieme ai fratelli, saranno murate le uniche sobrie tenerezze ricevute nella sua infanzia. Il dolore è troppo forte perché non si ripercuota sul suo stato di salute e in preda ad una violenta febbre deve trattenersi a Messina fino al giorno 25.
Nella casa di Modena, dietro i volumi di una libreria è ancora conservata una scatola di latta, legata con uno stinto nastrino azzurro. All’interno, preceduti dal raggelante telegramma e da un foglio di necrologi, gli unici ricordi della madre che era riuscito a portarsi: un abito marrone scuro, una camicia chiara, l’ultimo ricamo incompiuto, le forbicine da lavoro, due mollette da bucato. Fornendogli una fotografia che egli stesso aveva scattato anni prima, ordina ad Andrea Bonanno11 il quadro del quale si era fatto cenno nelle prime pagine di questo libro: ancora oggi è appeso in un angolo del salotto silenzioso della nostra vecchia casa. Sembra emani tutto lo strazio e, insieme, l’amore mistico per mamma Carmela.
Anche Vittorio è disperato e si rifugia a Milano senza parlare più con nessuno. Annetta scrive a Gino, ricorda la madre, le sue abitudini e conferma, inizialmente con prudenza, la convinzione del fratello: mamma Carmela è morta perché non ha seguito le cure da lui prescritte.
“ […] il papà forse non aveva colpa, ma la curava troppo a modo suo. ……quando la mamma è stata qui (Carmela e Giuseppe Di Bella avevano passato qualche giorno a Pellegrino) godeva sempre delle mie cure e mi mandava sempre benedizioni. Insistetti più di una volta perché non partissero: Mamma era d’accordo con me, poi il papà la consigliava a modo suo e lei, poveretta, sempre ubbidiente, lo seguiva docile… La mamma non parlava mai, sapeva sempre tacere e così finì la sua vita senza il conforto d’uno dei suoi figli, che fino venerdì sera, come mi fu detto, cercava sempre”.
Un dolore in più che si aggiunge a quello immenso della perdita. Dopo alcuni giorni arriva a Modena una cassettina di legno: contiene la vecchia sveglia che Carmela teneva sempre vicina ed il cui carillon le teneva compagnia. Ed ancora ticchetta vicino alla poltrona che ha ospitato le ultime sofferenze del Prof. Di Bella. Anche questo oggetto taceva impolverato in un cantuccio della casa di via Don Minzoni. Con la fortuna che a volte accompagna gli inesperti, la aggiustai, portandola a mio padre verso la fine del 1999. Non dimenticherò mai la sua espressione quando, precedute dal frullo di un’elichetta del meccanismo, dal vecchio orologio si diffusero le note di un’antica ed ingenua melodia: i suoi occhi socchiusi fissarono un punto indefinito della camera, una zona buia dove sembrava non ci fosse nulla, al di fuori del tempo e dello spazio. Ma lì c’era ancora mamma Carmela, seduta accanto al braciere, la mantellina di lana sulle spalle, che nell’ombra del crepuscolo ascoltava e rivedeva in un angolo della stanza il viso di Ginuzzu.
A metà maggio riceve una lettera di Filippo, che gli chiede se può intervenire in suo favore per un impiego che si prospetta a Messina e allega una minuziosa nota spese per le esequie. Si ricompatta in un qualche modo il rapporto con i fratelli e riprende la corrispondenza, dalla quale possiamo seguire gli eventi di quel periodo. La sofferenza è acuta, se Annetta gli scrive l’otto giugno: “Le tue lettere mi fanno piangere tanto, vedo che non ti stancheresti di parlare della nostra mamma carissima …io ho giurato alla mamma in quella cappelluccia al camposanto che noi ci vorremo bene come prima e più di prima”. Maria è impegnata per la maturità scientifica, dopo l’esame integrativo e Filippo lo sollecita a trovarle un’occupazione; Giovannino si è sposato ed essendo l’Italia entrata in guerra, è stato mobilitato; Vittorio è sempre a Milano, dove, dopo una consulenza di Gino, ha brevettato un nuovo insetticida; la sorella Ciccina, che ha seguito una terapia consigliata da lui – della quale, purtroppo, non ci è dato conoscere i dettagli – sta bene e non avverte più disturbi: queste le notizie ricevute, alle quali si aggiunge, su una lettera di Annetta, un breve scritto del figlio Pippo Pavone, che fa sorridere di tenerezza: “Caro zio, siccome agli esami non ho fatto bene il compito, ora mi tocca studiare per riparare ai prossimi esami autunnali. Queste cose a te non capitarono mai, vero? Ti ricordi della graziose cartoline che mi mandavi da Parma? Tanti baci Pippo”. Una rara lettera del padre Giuseppe, il successivo ottobre, lo informa che è stata posta una lapide di marmo scuro sulla tomba di Carmela: vi si leggono la tristezza di una vita solitaria, qualche appunto al comportamento dei figli ed un’affermazione che, riandando a quanto osservato prima, dimostra con quanta leggerezza sia stata trascurata la salute la scomparsa: “…tutte quelle cartine che mandasti a tua mamà, spiegami di che farmaci si tratta; posso usarli anch’io?”.
In altre lettere non mancano le consuete ossessive richieste di aiuto per questa o quella pratica, riprese, dopo il breve intervallo del lutto, con una costanza degna di miglior causa. Ma un evento è riuscito a distrarre Luigi dai pensieri tetri che lo hanno accompagnato negli ultimi mesi: la sua Ciccina aspetta un bambino. Vittorio gli scrive per invitarlo a passare le festività natalizie a Milano, e Luigi accetta. C’è ben poca allegria tra la gente, e men che meno nel cuore dei due fratelli, quando le campane del Duomo annunciano il nuovo anno. Non è difficile mettersi nella mente di Luigi mentre assaggia lo spumante a denti stretti – è assolutamente astemio – e si sforza di apparire allegro: il sorriso sfumato della madre è davanti ai suoi occhi, insieme al visino del piccolo che deve nascere e riposa beato nel ventre di Ciccina. Ha pagato a duro prezzo la gioia dell’unione con la donna amata, del poter finalmente disporre di una vera casa dove rifugiarsi e trovare conforto alla fine della giornata di lavoro. Non sono mancate tante altre difficoltà e crucci, ma il Poeta della Scienza si è addentrato in quel mondo che, unico, ha la capacità di fargli superare i dolori della vita. Le ricerche iniziate ed il brulicare di idee ed intuizioni, gli hanno già delineato nella mente il programma di lavoro per il futuro12.
Col nuovo anno Luigi intensifica il lavoro di ricerca e pubblica ben sette lavori, due dei quali relativi all’azione dell’aneurina (vit. B1) della quale dimostra l’influenza sul tono e sull’ampiezza dei movimenti pendolari dell’intestino tenue, gli altri concernenti il carotene e la vitamina A e la loro autonoma azione ipoglicemizzante13. Ha ancora ventisette anni ed è al venticinquesimo lavoro pubblicato. Nell’imminenza del parto giungono da Messina le due sorelle di Ciccina, Citta e Sara ed il 30 maggio 1941 nasce il piccolo Giuseppe. E’ Luigi stesso a guidare il parto e commentare con un “è maschio!” la sua gioia di padre. Ciccina è illuminata dalla felicità, il travaglio è stato breve e i continui consigli ed incoraggiamenti del suo Gino durante le varie fasi le hanno consentito di affrontare e superare gli inevitabili dolori con serenità. Accorrono subito i Tirelli e Lina tiene nelle mani quel gingillino roseo che piange e reclama già il latte materno. All’università tutti sono messi al corrente della notizia dal giovane scienziato fuori di sé dalla gioia: dai colleghi al portiere Gennaro. E’ il primo nato che porta il cognome Di Bella ed a Linguaglossa il nonno, con tutte le sue pecche caratteriali, ne è entusiasta. Dopo qualche mese Giuseppe, che verrà sempre chiamato Pippo, coccolato dalle bambine che abitano nel palazzo si gode la frescura del giardino e le carezze. Il conflitto continua ed ormai l’illusione della guerra lampo è tramontata da un pezzo. Il giorno del secondo anniversario del matrimonio, il 3 settembre 1941, lo scienziato, col grado di Capitano Medico, parte per la Grecia: Ciccina lo accompagna affranta alla stazione di Bologna, dove a causa della ressa lo vede partire senza poterlo salutare con un abbraccio.
Il viaggio è lungo e faticoso e Luigi arriva stanco ed in preda alla febbre in Albania. Ciccina torna a Messina con Peppuccio. Si può immaginare lo stato d’animo di Luigi nell’allontanarsi dalla sposa, dal suo piccolo, diretto verso un paese sconosciuto. Non si sgomenta, ma rassegnandosi alla sorte è determinato a compiere tutto il proprio dovere. La vista del mare e della terra che ha ospitato la più grande civiltà della storia umana lo emoziona e coinvolge e gli fa dimenticare, per quanto possibile, la tristezza dei tempi. Non si sente a suo agio, non si sente se stesso con quella divisa, con le stellette, il cinturone di cuoio e la fondina che cela la Beretta calibro 9, ma coglie il profondo significato dei simboli che porta addosso. Servire il proprio paese, servire la Patria – termine che eccita sempre il ghigno dei sine baculo – gli riempie l’anima. Ha visto spesso nel porto di Messina le corazzate della flotta Italiana, mastodonti d’acciaio irti di grossi calibri e ne è rimasto affascinato. Una volta, ancora studente, ha fatto una lunga fila per salire sulla Cavour e visitarla; non gli è sfuggito alcun particolare e solo la timidezza gli ha impedito di tempestare di domande l’ufficiale che faceva da cicerone al pubblico.
Due settimane dopo, il 16 settembre 1941, Pietro Tullio chiude gli occhi per sempre. Muore a Genova, ultimo porto illusorio del suo tormentato vagare in cerca di una pace che il mondo non riusciva a dargli. Sono trascorsi undici anni da quando il timido studentello del primo anno gli si è presentato con l’abito infiorato di rammendi e le scarpe sdrucite, ma ora non è più in grado di proteggerlo dalle conseguenze della sua stessa superiorità e dalla cattiveria di un mondo che va deteriorandosi inesorabilmente. E siccome stiamo parlando di due angeli, ci sia concesso indugiare un istante nell’immaginazione e seguire il grande friulano, effigie d’aria tremula, mentre accorre nella terra dove nacquero l’arte ed il pensiero per salutare colui che sentiva figlio, circondarlo di un ultimo abbraccio, sussurrargli con suoni muti che gli sarà sempre vicino nel suo cammino terreno; per lasciare poi il suo calco umano al cimitero di San Vito al Tagliamento ed alle lacrime di Paolina e dei parenti e, finita la missione che era stato inviato a compiere, tornare dove dimorava sessant’anni prima.
In Grecia le truppe italiane, mal equipaggiate, con un appoggio aereo saltuario, pregiudicate dalla sottovalutazione dei seri problemi logistici comportati dalla natura del territorio, hanno fatto quanto era nelle loro possibilità. L’enigmatico maresciallo Badoglio, che alcuni ritengono abbia avuto non poche responsabilità nella rotta di Caporetto, ha dato un’ulteriore prova di inettitudine militare ed è stato sostituito dal Gen. Cavallero. Il rischio di una umiliante sconfitta è stato scongiurato dall’intervento tedesco, che ha avuto ragione anche degli aiuti inglesi: il 3 maggio 1941 le truppe italo-tedesche hanno sfilato per le vie di Atene. Ma si è trattato di tutt’altro che di una passeggiata: quasi quattordicimila morti, venticinquemila dispersi, cinquantamila feriti e dodicimila congelati gravi. Anche se è passata la fase più critica della campagna, la situazione che Luigi trova all’Ospedale Militare affidatogli, quello della 39a Divisione Acqui, non è certo idilliaca, per numerose carenze di personale e di mezzi; deve inoltre sbrogliare una grande quantità di adempimenti burocratici, spesso carenti di significati concreti. Analoga la situazione all’Ospedale della 209a Divisione Modena, a Janina, che è chiamato a dirigere qualche tempo dopo. Qui, con diversi mesi di ritardo, apprende della scomparsa di Tullio da una lettera del Prof. Dellepiane, ordinario di Clinica Ostetrica all’Università di Parma: è un grande dolore, uno dei più intensi di tutta la sua vita. La convivenza giornaliera con la sofferenza e la consapevolezza di quanto può fare per lenirla lo fa reagire e motiva ancora di più. Prezioso l’aiuto che gli proverrà dall’appoggio incondizionato degli uomini ai suoi ordini, dalle crocerossine, dal cappellano militare. Come suo solito, non ama i lunghi discorsi, minimizza il frutto delle sue fatiche, è cortese con tutti e pronto a venire incontro alle esigenze di ognuno, ma il suo modo d’essere scoraggia qualsiasi tentativo di instaurare rapporti di privilegiata confidenzialità. Contemporaneamente, gli stessi che non oserebbero mai violare la sua riservatezza, sentono dentro di sé che a quell’uomo si può confidare una pena, un disagio, un intimo tormento, che gli si può parlare col cuore in mano e da lui ricevere aiuto e conforto. Pur non facendo nulla per risultare gradito ed ingraziarsi i subalterni, ben presto diviene oggetto di una stima, un affetto, una devozione totali e perfino i lavativi, controvoglia, lo adorano. Anzitutto occorre sapere cosa si può fare e come, per cui si immerge nelle lettura delle astruse norme regolamentari che impara a puntino. Il lavoro è snervante e senza requie, perché di tutto vuole rendersi conto, tutto desidera controllare e riprende qualsiasi scarroccio verso consuetudini superficiali e non ragionate: l’abbiamo sempre fatto così con lui cessa di essere una norma comportamentale e, semplicemente, sparisce dalla pratica. Prima è medico, poi capitano medico: questo deve essere ben chiaro a tutti. La vita e la sofferenza non conoscono limiti o regole e vengono prima di ogni altra cosa.
Quindi: igiene assoluta negli ambienti e nelle cucine, differenziazione della dieta alimentare malato per malato, assistenza attenta e continua, rigoroso controllo perché nelle camere di degenza non vi siano correnti d’aria o sbalzi repentini di temperatura, lenzuola immacolate. Un grave problema da risolvere è la penuria di farmaci, compresi quelli essenziali. Tempesta i superiori per avere quanto gli è necessario e, a costo di farsi considerare un vero incubo, non desiste fino a quando non ottiene quanto richiesto.
Nei casi di materiale impossibilità, contatta altre unità sanitarie, che peraltro si trovano spesso in condizioni analoghe. Le scene alle quali deve assistere sono terribili: dolore, smarrimento, mutilazioni e devastazioni fisiche. Si aggiunge un inverno insolitamente freddo con abbondanti nevicate che, rendendo difficoltosi comunicazioni e trasporti, causano anche penuria di viveri freschi.
La popolazione locale non versa certo in condizioni più floride e non è insolito che contadini, montanari, operai, sacerdoti del luogo vengano a chiedere qualcosa da mangiare. Occorre arrangiarsi.
Luigi fa recintare uno spiazzo, costruire qualche rudimentale capanna e ricava un ovile ed una piccola stalla per i bovini. I ricoverati potranno disporre così di latte fresco e, visto che quel medico instancabile sembra saper fare tutto, istruisce alcuni uomini di truppa sulle tecniche per ricavarne ricotta e formaggi. Con la collaborazione di qualche gallina, le uova vanno ad arricchire il vitto giornaliero. Quando la neve si scioglie, fa dissodare un poco di terra e si procura semi di legumi e verdure diverse. Non consuma quasi mai il vitto da ufficiale, che cede regolarmente a qualche malato, accontentandosi del rancio: in ogni caso cento volte più saporito delle “orride” minestre che la sorella Ciccina gli ammanniva da piccolo a Pellegrino.
La domenica aiuta il cappellano militare ad addobbare la sala destinata alle funzioni religiose ed accompagna la messa suonando l’armonium. Non è solo un momento di preghiera, ma l’occasione per ripercorrere il passato, richiamare alla mente il viso dei propri cari, sentirsi per un’ora lontani da un mondo nel quale spadroneggiano violenza e ferocia.
Ma nell’attività quotidiana è il medico ad emergere prepotentemente, il fisiologo clinico, capace di una precisione diagnostica ed una maestria clinica che lasciano sbalorditi tutti, in modo particolare i medici che ne fanno la conoscenza. Sarà proprio la sua eccellenza di medico a procurargli un superlavoro inaspettato, visto che la sua fama si estende e fa affluire, oltre che ‘pezzi grossi’, malati che giungono da zone pure servite da altri ospedali e, alla chetichella, casi difficili sottopostigli dagli alleati tedeschi, solitamente spocchiosi anzi che no e di gran lunga meglio attrezzati. Giungerà così a dover ospitare trecento letti. Non intende però rinunciare a quello che ritiene il doveroso ruolo di direttore dell’ospedale e se il tempo diminuisce, occorre trovarne altro: toglie qualche altra ora al sonno, rinuncia spesso a stendersi nel suo lettino ed impara a dormire in piedi, appoggiato ad una colonna, per poter accorrere alla prima invocazione di aiuto di un ferito o di un malato. Ricordando questo episodio, commenterà semplicemente: “dopo un poco ci si abitua”. Le crocerossine lo osservano preoccupate, perché sanno che nessun fisico, nemmeno il suo, può resistere a lungo ad uno sforzo del genere e che il caffè, quando disponibile, non può certo far miracoli. Man mano che il tempo passa, nei soldati italiani alle ferite si aggiungono malattie originate dalle improbe condizioni di vita, vecchi problemi fisici da queste riesumati, dissenteria, affezioni virali e batteriche, epatiti, casi di malaria. Nel suo ospedale moriranno solo due ricoverati, dei quali ricorderà spesso con tristezza gli ultimi istanti; in particolare non potrà dimenticare un ventenne camicia nera, ferito mortalmente, che spirerà dopo una lunga agonia ripetendo in continuazione durante il delirio la parola “mamma”. Purtroppo non disponiamo altro che di annotazioni di ricordi sentiti da lui stesso o riferiti da amici di vecchia data, relativi a questo importante periodo della sua vita: ci sono giunte diverse fotografie, ma non lettere, probabilmente andate smarrite nel trambusto della guerra. Tra i miei ricordi d’infanzia, ho memoria della visita fattaci nella vecchia casa di via Cucchiari da una delle sue crocerossine, che rievocò con particolari che oggi vorrei tanto aver annotato, eventi ed emozioni di quel tempo. A Messina, nel frattempo, Ciccina vive le difficoltà dell’ora con Peppuccio e l’aiuto delle sorelle, consolata nella sua trepidazione dai suoi cari e da Adolfo Runci, che minimizza i pericoli e con autorevolezza convincente le assicura che il suo Gino non corre rischi: in realtà la situazione è diversa, perché l’attività frenetica e la malaria contratta ne stanno minando la salute. Sul margine bianco di una foto mandata a Messina, e nella quale è ritratto con un agnellino tra le braccia, si legge nella sua calligrafia minuta: “convalescente”.
Ha un momento di esaltazione quando può visitare Atene e soffermarsi pensoso ed in religiosa contemplazione davanti al Partenone, dove un collega lo ritrae. Tanti episodi della storia di quel popolo eletto gli sfilano nella mente ogni qual volta gli spostamenti lo portano davanti a località storiche e gli capita anche di ripensare alla storia più recente, quando la stirpe di coloro che, non senza ragione, consideravano barbari tutti gli altri popoli, si era completamente estinta: sosta commosso a lungo a Missolungi, dove centodiciotto anni prima è spirato l’autore del Manfred, il grande Byron. Impara anche l’alfabeto greco ed il greco moderno e può così saturare la sua incontenibile curiosità: ha occasione di parlare con preti ortodossi, di formarsi un’idea della loro esistenza e della loro concezione di vita, ricordando con spirito compassionevole i poveri e sudici sacerdoti, ignoranti e superstiziosi e con ammirazione la cultura dei pope che ha occasione di avvicinare. Le fatiche consuete riprendono dopo queste rare occasioni di svago e si fanno anzi sempre più pesanti. Tra i ricordi di quel periodo le trasferte da zona a zona, un laghetto dalle acque incredibilmente azzurre ed una marcia estenuante. In occasione di questa, avrebbe potuto percorrere i trenta chilometri a dorso di mulo, ma decide di far salire sulla cavalcatura un soldato ancora convalescente e di andare a piedi. Dopo tanto tempo, gli si accendeva un sorriso mentre si descriveva alla fine della fatica, beato del ristoro ai piedi coperti di vesciche fornito dalle acque fresche di un torrentello.
Le sorti del conflitto si delineano con chiarezza quando comincia a manifestarsi il superiore potenziale bellico angloamericano. Luigi non si lascia ingannare dalla stampa propagandistica e quando Rommel, trovatosi privo di adeguata copertura aerea, con scarse forze corazzate ed a corto di munizioni e carburante, vede fallire ad El Alamein il sogno di conquistare l’Egitto e raggiungere il canale di Suez, sentenzia che la guerra è irrimediabilmente perduta. Si è formato una opinione poco lusinghiera dei comandi militari italiani, più casta al vertice che vertice di capacità, dopo l’indiretta ma significativa esperienza personale. Con l’inizio del 1943, le sue condizioni fisiche degradano ulteriormente e spera gli possa giovare una breve licenza, che peraltro è costretto a trascorrere tristemente da solo: l’interdizione aerea delle linee ferroviarie ed i milleduecento chilometri tra Messina e Modena, che in quelle condizioni significano un giorno e mezzo di viaggio e di rischi elevati, non consentono in un primo momento né a lui né a Ciccina di muoversi. Durante la licenza Luigi riesce a stendere e far pubblicare un lavoro che la partenza per la Grecia non gli aveva consentito di ultimare. Si tratta di ricerche sui retinoidi di basilare importanza e che giocheranno un ruolo fondamentale nella logica scientifica che porterà, trent’anni dopo, alla soluzione di retinoidi, uno dei cardini del Metodo14. A distanza di sessant’anni da queste acquisizioni, quando Luigi Di Bella chiuderà gli occhi, coloro che più di altri dovrebbero non tanto conoscere, quanto dominare la materia, essendo la loro attività deputata alla cura dei tumori, non ne avranno che una conoscenza rudimentale.
Dopo questa fatica scientifica, la sua salute peggiora invece di migliorare, per cui, anche in considerazione del fatto che la situazione militare si va aggravando ulteriormente, Ciccina e Peppuccio, accompagnati da Sara e Citta, lo raggiungono. Dopo terribili bombardamenti, l’undici giugno Pantelleria si arrende, il 12 è la volta di Lampedusa, il 18 ed il 25 Messina è bombardata pesantemente e indiscriminatamente e la stessa sorte tocca ad Augusta, a Catania, a Palermo, mentre la sparuta caccia italo-tedesca, impegnata da nugoli di aerei avversari, non riesce ad ostacolare le incursioni dei bombardieri alleati.
Le notizie che filtrano attraverso le maglie della censura raggiungono Luigi in preda alla malaria e con un fegato che deborda dall’arcata costale. Minimizza l’ittero finchè può e poi viene ricoverato d’autorità all’ospedale militare di Bologna in condizioni preoccupanti, anche per il sovrapporsi di una pronunciata anemia. Ma appena è in grado di muoversi insiste fino a quando, sotto la sua responsabilità – gli viene detto – torna a casa. Il 9 ed il 10 luglio la settima armata statunitense è sbarcata a Gela e l’ottava armata britannica a Pachino e Siracusa: sino alla fine del conflitto, salve fortuite occasioni, Gino e Ciccina non potranno avere notizie dei loro cari. Ai tragici eventi del paese ed ai problemi di salute si aggiungono difficoltà economiche dovute alla mancata corresponsione degli assegni di spettanza ed al fatto che la banca, presso la quale aveva depositato i suoi risparmi in un libretto, gli nega la possibilità di prelevare: cose italiane, direbbe qualcuno e non ci sentiremmo di dissociarci. Il primo a contattarlo è Vittorio, che viene a riabbracciarlo, trattenendosi poche ore a Modena alla fine di agosto e promettendogli di procurargli il chinino per fronteggiare gli accessi malarici; segue Giovannino che gli scrive da Genova e gli conferma l’impossibilità di comunicare con la Sicilia. Da successive lettere si apprende che la salute di Luigi non accenna a riprendersi e che i fratelli cominciano a preoccuparsi seriamente. Il 2 settembre l’Ospedale Militare di Bologna gli rilascia un “foglio di licenza speciale in attesa di trattamento di quiescenza” per “epatite, anemia e malaria’” Poi, finalmente, le cure con i farmaci che è riuscito a trovare cominciano a fare il loro effetto e verso la fine di settembre, pur senza che tutti i timori siano fugati, un po’ di serenità torna in famiglia: Luigi va riprendendosi lentamente, ma per qualche tempo deve trascinarsi con l’aiuto di due stampelle e spesso è colto dalla terzana che lo obbliga a letto con temperature prossime ai 41°. L’ittero gradualmente scompare, le forze ritornano e, grazie alla fibra integra ed alla forza di volontà, è in grado di iniziare l’attività didattica per il corso 1943-44 e quella scientifica. Ancora sei anni dopo permarranno i segni della malattia: la commissione medica per le pensioni di guerra di Bologna, dopo una visita medica del 15 novembre 1949 che riscontra “lieve epatomegalia post-malaria”, lo propone per la pensione di guerra nella “categoria ottava”.
L’interesse istituzionale per il suo valore di ricercatore non sembra scemato, visto che trova un’ulteriore conferma nella segnalazione del suo nome, fatta dall’Irce (Istituto per le relazioni culturali con l’Estero) per una borsa di studio in Germania, la cui fruizione rimane vanificata dagli eventi politici15. Il 17 agosto comunica presso la Società Medico-chirurgica di Modena sulla “Importanza di alcuni organi e dell’aria compressa nella ritrasformazione della metemoglobina in vitro”, oggetto di pubblicazione l’anno successivo. Si aggiudica – come già accaduto negli anni 1940 e 1941 e come si ripeterà nel 1944 e nel 1945 – il Premio di operosità scientifica, lodevole iniziativa che, nel dopoguerra, sarà sostituito da quello di neghittosità scientifica, se in tale dizione vogliamo condensare tutte le vergognose prebende delle quali beneficeranno tanti oligofrenici universitari. Ma, come si suol dire, l’importante è distinguersi.
Le ristrettezze del periodo si fanno sentire, eccome, sul vitto, ma tutto sommato in minor misura rispetto al centro sud Italia. C’è chi ha cantine e soffitte stipate di ogni ben di Dio, di pasta, di prosciutti, culatelli, coppe, salami che pendono su sacchi di farina bianca e impalpabile come cipria, bidoni di lardo, casse di zucchero e caffè, latte di carne e di tonno, forme di parmigiano, conserve di frutta, sottaceti, scatole traboccanti di funghi essiccati, marmellate, cacao: e pure recita la parte del diseredato; chi fa di peggio; e chi si deve accontentare di magre razioni che si riescono a mandar giù solo per quel miracolo chiamato fame. L’espressione usata da Ciccina, di “spaghetti che sembrano spago”, rispecchia l’impressione di tanti, quantomeno della maggior parte di coloro che comprano generi alimentari con la tessera. Tra i privilegiati, alcuni dissimulano anche con parenti ed amici, che, forse paragonando il proprio aspetto deperito con il loro rubizzo, sperano in un aiuto; altri non sono ispirati solo dall’egoismo ma anche, o soprattutto, dall’avidità ed alimentano il mercato clandestino ammucchiando denari. Così, prevalentemente al nord, nascono d’incanto grandi fortune, anche in capo a quanti ostenteranno in futuro i più nobili ideali libertari e le più fiere rivendicazioni di solidarietà e giustizia sociale. Alla fine della guerra non sarà raro sentire il lezzo di cibi corrotti, stipati in quantità esagerate e per troppo tempo, levarsi da certe cantine e al mattino veder sfilare nei canali della Bassa, ammuffito o putrefatto, quello che era stato un vero ben di Dio.
La storia insegna come la grandezza dell’Italia sia dovuta a grandi individui, la sua miseria ad un esangue sentimento nazionale ed eterne divisioni. Per secoli e secoli nel nostro paese si sono fronteggiati due soli partiti: quello che appoggiava uno straniero e quello che ne appoggiava un altro. La nostra disgrazia è stata che è sempre mancato il partito che appoggiasse gli italiani. Con una mentalità collettiva di questo genere si è condannati a vivere sempre da servi e nel disprezzo generale, nonostante nelle proprie vene scorra sangue blu: perché, si dica quel che si vuole, oggi come un tempo viene rispettato – ed è giusto sia così – solo chi venera i propri grandi e va fiero della sua identità e della sua storia. Le ideologie, queste figlie settimine del male e della stupidità, sono il piede di porco di qualsiasi civiltà umana.
E’ un ben triste Natale quello del 1943, tra guerra, delusioni, lontananza, preoccupazioni, paura dell’avvenire. C’è freddo, ma si fatica a trovare legna e carbone. Ci si arrangia come si può, usando anche ruote di vinacce, che nella stufa non bruciano bene come le mattonelle di antracite, ma scaldano lo stesso e, riposte in cantina, sprigionano un caratteristico odore arcano, di quelli che a volte hanno una capacità evocativa superiore a fiumi di parole. La sera della Vigilia, avvolte dalle tenebre di una città silenziosa e abbuiata dall’oscuramento, siedono intorno al desco la famigliola riunita, Citta e Sara: la magia della notte e la gioventù aiutano a ritrovare un sorriso. Accanto alle candeline di uno spoglio abete ed al piccolo presepe, la luce più fulgida: Peppuccio, che cresce sano e vivace, distrae tutti con le sue moine e viene coccolato dalla mamma, dalle zie, da Lina Tirelli, e, sotto l’apparenza di giochetti scherzosi, dal papà.
***
Il nuovo anno non si apre certo con pronostici incoraggianti. La guerra si sta ulteriormente incattivendo, l’Italia è diventata un terreno di scontro fra truppe tedesche ed angloamericane e nonostante l’armistizio ed il rovesciamento di alleanze i bombardamenti sulle città italiane proseguono senza soluzioni di continuità. Anche a Modena ci si prepara al peggio e tutti i locali con idonee caratteristiche sono stati trasformati in rifugi, mentre un po’ in tutta la città molte cantine hanno le finestrelle protette da sacchetti di sabbia in funzione anti-scheggia. All’università l’attività didattica prosegue e il 12 gennaio Luigi comunica nuovamente alla Medico-chirurgica sulla “Ritrasformazione della metemoglobina in emoglobina ad opera di estratti d’organo”, seconda fase del lavoro sperimentale compiuto e propedeutico alla pubblicazione che poco più avanti elenchiamo in nota. Alcuni colleghi sbuffano, fanno sorrisini e lo compatiscono nel vederlo tanto assorbito dalla ricerca: hanno ben altro da fare, visto che in summit riservati si contratta già su incarichi e cattedre da assegnare quando tutto sarà finito: considerato che il talento del brigare caratterizza chi vale poco e capisce meno, per scienza e cultura non si preparano certo tempi felici. Ai meriti di virtuali marciatori su Roma se ne sostituiranno di nuovi, ancor più virtuali, rivendicati anche da chi se ne è rimasto sempre sulla poltrona di casa e sarebbe svenuto di paura al primo colpo di scacciacani. Può cambiare la divisa, ma l’ominicchio che ci sta dentro rimane sempre tale.
Può ancora svolgere lavoro sperimentale, s’intende con i pochi mezzi a disposizione, ma già deve subire le prime vessazioni: pallida avvisaglia di ciò che seguirà. In una lettera del giugno 1950 indirizzatagli da uno dei pochi colleghi di grande valore, il Prof. Giuseppe Moruzzi, ordinario della cattedra di Fisiologia presso l’Università di Pisa, vengono ripercorsi questi anni, caratterizzati dai molti bocconi amari che dovrà mandare giù e che hanno creato sconcerto nei pochi ambienti sani del mondo universitario : “…l’insegnamento della fisiologia è stato fortemente limitato dal Prof. che costringeva gli studenti a studiare sulle sue dispense di Fisiologia umana, e non generale e addirittura costringendoti ad impartire l’insegnamento della Chimica Biologica di cui possedeva lui l’incarico […] ”.
In quel periodo a Luigi viene offerta la presidenza della “Casa della Madre e del Bambino”, incarico che svolge con il suo consueto zelo ed impegno. Giungono notizie da Vittorio, che scrive dalla compagnia sanitaria presso la quale svolge servizio, da Giovannino che da Genova verrà a Modena per un paio di giorni all’inizio di marzo e da Filippo che lavora presso la filiale di Caltanissetta del Laboratorio Guidotti e che, non si sa come, è riuscito a far recapitare la lettera. Degli altri componenti della famiglia ancora nessuna notizia. Il 14 febbraio Modena è bombardata per la prima volta; il 13 maggio la seconda incursione provoca oltre centoventi vittime e tremila persone rimangono senza tetto. Il Duomo viene colpito, per fortuna senza che si registrino danni irrimediabili, ma una stupenda chiesetta del Duecento vicina al mercato coperto viene polverizzata insieme ai suoi preziosi affreschi. Queste barbarie non possono meravigliare, una volta che si sia al corrente delle dichiarazioni del Gen. Dwight Eisenhower: “Stiamo per invadere e conquistare col ferro e col fuoco un paese ricco di opere d’arte. Ma voi non fatevi scrupoli e portate a casa la pelle: nessuna opera d’arte può valere quanto la vita di un soldato americano”16. Ci sfugge il potenziale offensivo del capolavoro romanico e di altre opere del genio italiano. Forse i puntatori dei Liberator scambiavano guglie per cannoni o consideravano le meravigliose navate lesive del loro orgoglio nazionale: e qui, in un certo qual senso, possiamo capirli …il brutto è che occorre attendere secoli perché da ventre di donna nascano un Wiligelmo o un Antelami, mentre di Eisenhower ne vengono alla luce assai spesso.
Dopo questi tragici eventi molti modenesi si rifugiano in campagna o sull’Appennino. La famiglia Di Bella, con Citta e Sara, si trasferisce a Bastiglia, paese a dodici chilometri da Modena lungo la statale del Brennero, tra i fiumi Secchia e Panaro. A poche decine di metri dal Canaletto – questo il termine di sapore guareschiano che designa comunemente quel tratto della statale – trovano ospitalità nella casa colonica della famiglia Plessi, che sorge su un fondo costeggiante per 700 metri la statale. Al piano terra c’è una stanza ed una cucina, al primo due stanze con solaio. Luigi non sta ancora bene, ma incurante dei pericoli ogni mattina raggiunge piazzetta S.Eufemia con la bicicletta, tornando a casa il tardo pomeriggio. Non che qui se ne stia con le mani in mano: a parte la stesura dei lavori17, deve visitare giornalmente gli abitanti dei dintorni, che si recano a casa Plessi; come sempre, senza chiedere un centesimo18. I pazienti vengono fatti accomodare in una stanza del piano terra dove una stufa, che sfiata perpetuamente fumo, dà un poco di tepore. Ogni tanto qualcuno – questa una sua tipica espressione – si commuove e Peppuccio può assaggiare un po’ di pasta fatta con vera farina o gustare qualche fetta di prosciutto. Le difficoltà del momento mettono a nudo le capacità individuali di sopperire alla penuria di generi di prima necessità e di manufatti. Così Citta ricava qualche capo di vestiario da pezzi di stoffa che riesce a procurarsi e arriva anche a confezionare per Pippo un paio di comode calzature con pelliccia di coniglio. I Plessi, che all’annuncio dell’arrivo di un medico docente universitario e famiglia erano un poco in ansia, pensando si trattasse di persone use trattare dall’alto in basso la gente semplice, rimangono piacevolmente sorpresi. Luigi è per lo più di poche parole, ma a volte si trattiene a giocare a carte con Carlo Plessi – il patriarca della famiglia – ed Angelo, nipote dello stesso. Nasce quindi un rapporto di amicizia sincera e presto i Plessi si sentono a proprio agio con la famiglia Di Bella, quasi fossero vissuti sempre insieme. Luigi dà mille utili suggerimenti, come quello di usare la crusca, particolarmente nutriente, nell’impasto per il pane e di lavorarlo molto a lungo; oppure insegna loro a ricavare lo zucchero dalle barbabietole.
Nell’ambiente universitario, i soliti noti riescono sempre ad ottenere quello che per altri rappresenta un sogno: ma occorre accettare complicità e compromessi, che sono inconcepibili per Luigi; il senso del dovere, in altri latitante, unito a questa intransigenza morale, concorrerà a procurargli ostilità e malevolenze. Sempre amante degli animali, ha allevato con ogni cura una maialina, che altri guardano unicamente come fosse la vetrina di un salumiere; al mattino la povera bestia, diventata adulta, gli corre incontro facendogli festa e prendendosi avidamente le sue carezze. Per un poco riesce a sedare le mire culinarie altrui, dicendo che l’animale è oggetto di esperimenti e che sono state inoculate sostanze pericolose. Col passar del tempo la piccola bugia non regge e non può impedire che la scrofa venga sgozzata, ma rifiuterà di assaggiare un solo boccone di quella carne.
Bastiglia è sede di un comando tedesco e Luigi, che comunica agevolmente nella loro lingua, si conquista il rispetto del maggiore comandante. Solo alla stima goduta, oltre che alla sua attività super partes di medico, alcuni giovani del luogo dovranno la salvezza, quando il giovane docente universitario interverrà in loro favore con un tono ed un linguaggio che i sospettosi ex alleati non avrebbero mai tollerato da altri. D’altronde il giovane docente aveva promesso ad un gruppo di partigiani, capitati una sera in casa Plessi, che li avrebbe sempre aiutati qualora avessero avuto bisogno della sua opera di medico. Si prodigherà anche perché una famiglia di origine ebraica, i Prati, che abitano nella casa di via Cucchiari, possa trovare un rifugio sicuro. Quell’inverno non è certo mite e ci si scalda a fatica con l’unica stufa a disposizione. Ogni tanto Luigi raggiunge la casa di via Cucchiari per controllare che tutto sia a posto. In una di queste occasioni, un mattino freddo, entrambi imbacuccati come meglio possono, i due coniugi – Ciccina sulla canna della bicicletta – percorrono il Canaletto in direzione di Modena; quando le ruote finiscono su un lastrone di ghiaccio, risulta inevitabile sbandare e finire per terra, con una risentita protesta della passeggera che, ispirata dall’acuto dolor di natiche, sbotta in un sicilianissimo “Morta sugnu!”, provocando la scomposta ilarità del marito. Nonostante il viavai su e giù per il Canaletto di blindati e autocarri e la vicinanza della casa alla statale, bombardamenti e mitragliamenti sono rari, anche per fitti nebbioni che impediscono agli aerei alleati di alzarsi in volo. Una bomba cadrà a qualche centinaio di metri senza provocar danno, mentre, a poca distanza, una mattina un caccia americano mitraglia un biroccio trainato da un somarello collaborazionista, che stramazza sull’asfalto straziato dalle raffiche.
Con l’arrivo del nuovo anno, gli eventi si succedono sempre più rapidi, con crudeltà, tragedie, nefandezze che possono spiegarsi solo con la sconcertante abitudine che l’umanità fa allo spettacolo della morte e della sofferenza. A metà aprile del 1945 il Canaletto è percorso da colonne di truppe motorizzate tedesche in fuga verso il Brennero, bersagliate dall’aviazione alleata e morse ai fianchi dagli attacchi dei reparti partigiani. Intorno alla casa si scavano fossi anticarro con l’impiego di mano d’opera procurata dalla Todt: accade così che gli sterratori si autoinvitino giornalmente, involando le poche provviste rimaste e qualche oca fortunosamente sopravissuta. Luigi e Ciccina, che, come tutti, si sono trovati ad assistere a scene crude nel corso dell’occupazione germanica, non possono non pensare con tristezza alla sorte che attende i fuggitivi, molti dei quali sono avanti negli anni o, al contrario, poco più che adolescenti. Uno degli ultimi giorni di guerra bussano alla porta due soldati della Wermacht. Uno ha già molti capelli bianchi e due occhi celesti di indescrivibile tristezza, l’altro sembra non avere nemmeno diciott’anni; sono entrambi coperti di fango, trafelati, impauriti ed affamati. I Plessi un po’ hanno paura, un po’ sono posseduti dal rancore per prepotenze subite e vorrebbero cacciarli, ma Ciccina e Gino insorgono: lo scienziato si guarda intorno, fissa i giovani e gli anziani presenti e li apostrofa con severa durezza: “Vergognatevi! Potrebbero essere vostro padre e vostro figlio!”. Che siano fatti entrare non lo chiede soltanto, ma lo esige con una decisione e un’indignazione che non ammettono repliche. Ai due fuggitivi, che guardano timorosi col capo abbassato, Ciccina offre tutto il pane che trova in casa e due tazze di latte fumante. I due si avventano sul cibo, ingollano il latte, sempre gettando occhiate intorno e scompaiono poi nella nebbia, manifestando coi gesti la loro gratitudine.
La fine di tanti massacri – a parte certe faide feroci e misteriose sparizioni che continueranno per qualche anno nelle terre della Bassa – è motivo di sollievo per Luigi, che non può dimenticare peraltro le distruzioni apportate dai bombardamenti e l’aria da trionfatori dei soldati alleati. Se poco gli garbavano i tronfi gerarchi e la retorica del ventennio, se mal tollerava la durezza arrogante delle truppe tedesche, la sua lucidità ed equidistanza dai fatti contingenti – quelli che da sempre fanno tremare o tripudiare il gregge – lo pone in una prospettiva che rifiuta semplicistiche scelte di fronte. E’ il rifiuto delle ideologie comune a tutti gli uomini superiori. L’unico ideale è il bene del suo paese e della civiltà alla quale crede: e nelle caramelle e nelle tavolette di cioccolata che vengono gettate verso le ali di folla che si assiepano ai lati dei carri Sherman in marcia, vede l’insulto al popolo italiano; un popolo che solo la grossolana e mendace propaganda bellica poteva ridurre ad una comunità di spaghettari e strimpellatori di mandolino.
Con la fine della guerra la famiglia torna nella casa di Modena ed inizia un lungo periodo, ragione di grande sofferenza per lo scienziato, che sperimenterà su di sé il degrado e l’infingardaggine degli ambienti accademici.
1. Il Prof. Giovan Battista Queirolo (1856-1930) fu un eminente medico e ricercatore, senatore del Regno e direttore della cattedra di Clinica Medica all’Università di Pisa.
2. Lettera del 27/1/1937, prot. 505/20, avente per oggetto “Posto di perfezionamento G.B. Queirolo”, indirizzatagli a Parma e firmata dal rettore Sen. Prof. Giovanni D’Achiardi.
3. Un grande artista comico siciliano, Angelo Musco (1872-1937), per il quale Martoglio e Pirandello scrissero dei lavori e del quale Luigi Di Bella era grandissimo ammiratore, spesso improvvisava battute in scena. In una di queste occasioni, parlando con un tizio evidentemente poco acuto, Musco esclama spazientito: “Senta, va bene essere cretini: ma lei esagera!”.
4. Tossicità della CO2, dell’H2S e del gas illuminante in ambiente umido ed in ambiente asciutto. Arch. Fisiol., 1937, 37, 291-318* – Sulla stimolazione galvanica diretta ed indiretta delle singole parti del labirinto acustico prima e dopo cocainizzazione. Boll. S.I.B.S., 1937, 12, 384-6 (in collabor. Con P. Tullio)* – Influenza del Prolan sul ricambio del calcio nelle rane. Boll. S.I.B.S., 1937, 12, 386-7.
5. Guglielmo Marconi, che era nato nel 1874, fu insignito del premio Nobel per la fisica nel 1909. Morì il 20 luglio 1937 in seguito ad un attacco anginoso.
6. Eccone il testo. ”I sottoscritti Professori ordinari componenti la Facoltà di Medicina e Chirurgia della Università di Parma, pel periodo nel quale al Sig. Dott. LUIGI DI BELLA fu affidato l’Incarico Ufficiale dello Insegnamento di Chimica Biologica presso la Facoltà di Parma, attestano quanto segue: Il Dott. Luigi Di Bella, nonostante la sua giovane età, dimostrò straordinaria padronanza della materia e non comuni doti didattiche. Infatti, per quanto la Chimica Biologica fosse a Parma materia complementare e facoltativa, moltissimi studenti prescelsero questo corso e lo seguirono con massima frequenza, attratti dalla chiarezza ed efficacia dell’insegnamento. I risultati degli esami, in gran numero brillantissimi, attestarono costantemente o pregi di dimostratore e di insegnante dello Incaricato Dott. Di Bella. La Facoltà pertanto, nella persona dei sottoscritti membri allora presenti, per periodo Accademico 1937-38 e 1938-39, mentre dà atto di quanto sopra esposto, porge al Dott. Di Bella col suo vivo elogio gli auguri migliori per la sua carriera scientifica. 22 giugno 1946. In fede: Prof. G. Razzaboni, ordinario di Clinica chirurgica generale, Prof. P. Marginesu, ord. di Igiene, Prof. R. Brancati, ord. di Patologia speciale chirurgica, Prof. G. Delle Piane, ord. di Clinica ostetrica e Ginec., Prof. A. Rossi, ord. di Radiologia, Prof. F. Rezzesi, ord. di Patologia Gen., Prof. G. Canuto, ord. di Medicina Leg. e Preside di Facoltà, Prof. T. Marchi, Rettore”.
7. Ricerche sulla sostanza tossica specifica renale. Boll. S.I.B.S., 1939, 14. 726-8.
8. L’episodio é riportato in The Cancer sindrome di Ralph W. Moss, edito nella versione italiana da Celuc Libri, 1984. Moss, già autorevole esponente del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, si diffonde sulle numerose e gravi anomalie che caratterizzano ricerca e terapia del cancro e denuncia la drammatica situazione di egemonico condizionamento sul mondo medico da parte delle multinazionali del farmaco. Non deve quindi destare meraviglia la difficile reperibilità del libro, comunque disponibile presso molte biblioteche statali.
9. Hopkins e Stepp già nel 1909 dimostrarono che alcune sostanze liposolubili erano determinanti per l’accrescimento. Nel 1913-14 McCollum e Davis individuarono la Vitamina A, estraendo tale fattore di crescita dal burro e dal tuorlo d’uovo. La struttura chimica della Vitamina A venne poi definita nel 1931 da Karrer, mentre sedici anni dopo Isler ne realizzò la sintesi.
10. Pubblicati rispettivamente su Boll. S.I.B.S., 1939, 14, 726-8 e Arch. Sc. Biol., 1940, 26, 469-92.
11. Andrea Bonanno è stato un artista di grande valore e di una certa notorietà in quel periodo, ma oggi completamente dimenticato. Pochissime le opere rimasteci, data la sua incontentabilità che lo portava a lunghe gestazioni e continui ritocchi e l’essersi impegnato per anni nell’affrescare una chiesa successivamente distrutta dai bombardamenti. Talento emblematico dello spirito siciliano, ossessionato dalla finitezza della vita e dalla vanità del mondo, rimase quasi improduttivo nell’ultima parte dell’esistenza, anche in seguito a problemi di salute.
12. Nel 1940 apparvero, oltre a quelli citati, due lavori: Sull’iperglicemia consecutiva a somministrazione di grassi alimentari per via parenterale. Boll. Soc. Med. Chir., Modena, 1940, 40, 207-9; Nuovi dispositivi per la determinazione della glicemia su quantità di sangue inferiori a 0,1 ml.. c.s., 1940, 40, 201-7.
13. Azione dell’aneurina sull’intestino isolato di ratto normale e in avitaminosi B1. Boll. S.I.B.S., 1941, 16, 226 e 1941, 41, 320-51. Azione del carotene sulla glicemia in animali diversi. Boll. S.I.B.S., 1941, 16, 351-2. Azione della vitamina A sulla glicemia in animali diversi. 1941, 16, 352. Azione del carotene e della vitamina A sulla glicemia dei ratti stiroidati. Boll. S.I.B.S., 1941, 16, 353. Rapporti del carotene e della vitamina A con la glicemia nei vari animali. Boll. Soc. Med. Chir., Modena, 1941, 41, 185-95. Azione del carotene e della vitamina A sulla glicemia dei ratti stiroidati. Boll. Soc. Med. Chir., Modena, 1941, 41, 195-6.
14. Trasformazione del carotene in vitamina A e azione del carotene e della vitamina A sulla glicemia nei vari animali. Archivio di Scienze Biologiche, 1943, 29, 301-304. Riportiamo il riassunto in calce al lavoro: “Esiste un parallelismo fra capacità di trasformazione del carotene in vit. A e intensità e costanza dell’abbassamento glicemico con carotene. Un abbassamento della glicemia, differente per intensità e costanza nei singoli animali, la possiede anche la vit. A, senza tuttavia dimostrare un parallelismo così stretto come il carotene. A spiegazione del reperto si affaccia l’ipotesi che il carotene come tale e la vit. A possano esplicare la loro azione sulla glicemia in misura tanto maggiore (carotene) o tanto minore (vit. A) quanto meno sviluppato è il potere di trasformazione del carotene in vit. A nei vari animali. Non è improbabile che questa differente intensità d’azione della vit. A sia in rapporto con l’ormone tiroideo, il quale possibilmente condiziona l’efficacia della vit. A”.
15. Comunicazione del 3/9/43, prot. 8220 a firma Luciano de Feo.
16. Passo di un discorso alle truppe tenuto dal generale statunitense.
17. In quell’anno vengono pubblicati: Importanza della tiroide nell’azione biologica del carotene e dell’axeroftolo, Arch. Sc. Biol., 1944, 30, 1-8; Sul meccanismo dell’azione antidota del nitrito sodico nell’avvelenamento da cianuri, Boll. Soc. Med. Chir., Modena, 1944, 44, 121-42; Retrocessione della metemoglobina in vitro, Boll. Soc. Med. Chir., Modena, 1944, 44, 239-60. Riportiamo il breve sunto dell’autore al termine del testo del primo lavoro: “Nei ratti stiroidati da 8 giorni il carotene e la vit. A abbassano, previo innalzamento iniziale, la glicemia, mentre l’aumentano nei ratti stiroidati 16 e 24 giorni prima. Ne risulta l’indispensabilità dell’ormone tiroideo perché il carotene e la vit. A facciano abbassare la glicemia, che invece s’innalzerebbe in mancanza di esso. Si affacciano delle ipotesi per spiegare la maggiore attività del carotene ed il meccanismo d’azione dell’ormone tiroideo”.
18. Pia Plessi, allora tredicenne, più di cinquant’anni dopo ricordava: “…il professore tutte le mattine visitava, sempre gratuitamente, i civili di Bastiglia. Un’infinità di persone veniva a farsi curare dal professor Di Bella in casa nostra”. Da “Di Bella – L’uomo, la cura, la speranza” di Vincenzo Brancatisano, ed. Positive Press, Verona, marzo 1998.